Diplomazia

Bene la diplomazia digitale, ma attenti a non confondere il mezzo con il fine

Bene la diplomazia digitale, ma attenti a non confondere il mezzo con il fine: la tecnologia non può sostituire l’analisi. Infatti anche durante le primavere arabe i nuovi media furono ottimi strumenti diplomatici per creare rete, ma non hanno prodotto alcuna leadership
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Dal cocktail allo smartphone, il tramonto dell’ambasciatore
di Marzio Mian per Il Giornale

E se la confusione fosse anche colpa dei diplomatici? Non sarà, viene da chiedersi, che queste situazioni di crisi internazionali incartate, prendiamo l’Ucraina, ma soprattutto la Libia, nelle quali nessuno sembra in grado di capire e decidere alcunché, sono anche la conseguenza di un mestiere che, in particolare in Italia, non si è adeguato ai tempi e, se associato all’inadeguatezza della politica, contribuisce a produrre quel cortocircuito cui assistiamo? Non è che il mondo è diventato insieme troppo sofisticato e troppo rozzo per Sua eccellenza l’ambasciatore? La combinazione di nuove tecnologie, scenari inediti («liquidi» come dicono quelli che inventano definizioni ma non soluzioni) e tagli di budget, ha archiviato la figura del diplomatico che offre cocktail party in terrazza, ma non basta a creare una nuova figura di feluca, tutta laptop e smartphone.

«I diplomatici sono in decadenza, sono degli impiegati che pensano alla pensione e rispondono a capi che non capiscono un tubo» dice con la schiettezza friulana e poco diplomatica che lo contraddistingue Giandomenico Pico, il mitico negoziatore Onu, uomo chiave in tante trattative pericolose e risolutive per la liberazione di ostaggi, oggi consulente freelance per privati e per governi. Pico ritiene che l’Italia (ma anche l’Onu) non si è ancora adattata alla fine del bipolarismo della guerra fredda: «Allora c’erano poche varianti e soprattutto esisteva ancora l’istituto dello Stato-Nazione, ora le varianti sono tantissime e le identità possono essere multiple, così che, per cercare la soluzione di un conflitto o in una trattativa, conta sempre di più il diplomatico-individuo, che ha le palle, il talento e rischia in proprio». Prendiamo la vicenda dei marò. Secondo Pico si è ragionato in modo vecchio, burocratico: «Intanto non bisognava cominciare dall’India. Io avrei cercato subito una sponda in una certa capitale europea…». Fa capire che bisognava trattare prima con Londra, l’ex titolare dell’Impero. «Oggi l’intelligence è più evoluta e più efficace della diplomazia in certe situazioni, tipo Libia, ma non solo».

Allora, serve ancora la diplomazia? «Se vanno in crisi i giornali non vuol dire che finisce il giornalismo. Allo stesso modo la diplomazia resta strumento insostituibile» assicura Alessandro Minuto Rizzo, ex Segretario generale della Nato. «In realtà c’è un eccesso di diplomazia, ma nel contempo scarsità di mezzi e di competenza. Sulla vicenda libica mi pare chiaro che non c’è sufficiente competenza» aggiunge. «I nostri 900 funzionari sembrano tanti, ma a fronte di una rete consolare gigantesca sono pochi. Nessuno piange se si tagliano risorse e personale alla diplomazia, ma assicuro che essere sul campo è dura… In Nigeria abbiamo due persone, solo due persone che osservano nel nome dell’interesse dell’Italia il paese oggi più importante dell’Africa…». Minuto Rizzo ci tiene a sottolinearlo: «Gli interessi nazionali contano eccome. Non c’è Europa che tenga. Penso alla Libia; il parametro può essere il dinamismo di Angela Merkel sul fronte russoucraino: ovvio che sia la Merkel a trattare con i russi, perché la Germania è quella che li conosce meglio da secoli. Non è intelligente pensare che sia la Mogherini a parlare con Putin…».

Gli inglesi sono stati i primi a investire nella diplomazia «leggera» e digitale, spedendo decine di giovani funzionari lontano dalle comode ambasciate, inviati sul campo e attrezzati per comunicare in tempo reale. «Quando ho cominciato io si trasmettevano telegrammi cifrati» ricorda Minuto Rizzo. «Ora ci sono i messaggini… Certo tutto è più veloce, anche nella diplomazia italiana. Si forniscono informazioni in tempo utile anche per far fare bella figura al politico che può così rilasciare interviste e lanciare i suoi bei tweet… Così la politica estera italiana è sempre più ondivaga». L’uso mediatico della diplomazia è forse il più evidente sintomo di declino. «Oggi i diplomatici italiani parlano molto, twittano e sono parte del cosiddetto popolo social. Ai miei tempi non si potevano nemmeno incontrare i giornalisti» nota Amedeo De Franchis, ex vice Segretario generale della Nato.

Sono cambiati i tempi, ma non abbastanza da ribaltare uno dei principi secolari della diplomazia: anche nel mondo globale e di Wikileaks, trasparenza e narcisismo rimangono i principali nemici di ogni buon ambasciatore. Uno dei primi ad usare Twitter fu Franco Frattini, ministro degli Esteri a più riprese a partire dal 2002 e ora presidente del Sioi, la scuola di formazione della diplomazia italiana: «Era il 2009 e Twitter era uno strumento diplomatico di grande rilevanza strategica, tanto che durante le elezioni in Iran il Dipartimento di Stato americano, per consentire agli oppositori di ricevere e diffondere informazioni, chiese al gestore del sistema di non operare la periodica manutenzione. Washington ce lo fece sapere in forma allora segreta».

Detto questo Frattini è convinto che si rischia di confondere il mezzo con il fine: la tecnologia non può sostituire l’analisi. «Infatti anche durante le primavere arabe i nuovi media furono ottimi strumenti diplomatici per creare rete, ma non hanno prodotto alcuna leadership». Frattini ricorda come una delle più efficaci operazioni di modernizzazione del ministero («quando entrai c’erano ancora i ricevimenti in stile Ferrero Rocher») avvenne durante l’interim di Silvio Berlusconi: «Fu lui a conferirmi il mandato di organizzare la diplomazia al servizio dell’economia del Paese».

L’unica novità evidente della «nuova diplomazia italiana» pare l’abbandono di rotte strategiche consolidate senza esplorarne di nuove, salvo appiattirsi – a partire dal governo Monti – su un amorfo e improduttivo europeismo. «Sono tre anni che gli Stati Uniti ci chiedono di occuparci di quello che sappiamo o sapevamo fare meglio, il Nord Africa e soprattutto la Libia, ma noi siamo ancora lì a chiedere il nulla osta di Bruxelles o a sperare che la Mogherini diventi il Kissinger europeo…» dice un consigliere agli Esteri di lungo corso.

Insomma una confusa transizione e un inseguimento della digital diplomacy che fa tanto casual e anti-cerimoniale, ma con la conseguenza di compromettere anche le peculiarità della nostra tradizione: «Solo noi sappiamo costruire contatti e interpretare le situazioni in contesti complessi e magmatici. Sono caratteristiche preziose in scenari come quello libico» dice Riccardo Sessa, ambasciatore a Belgrado, Teheran, Pechino, capo del Mae per il Medio oriente ai tempi di Nassiriya. «La stessa credibilità che si sono conquistati i nostri soldati nelle missioni» aggiunge: «Se il rispetto dell’Italia all’estero è stato salvato in questi anni è grazie a molti imprenditori, ai nostri bravi ambasciatori e alle nostre forze armate».


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