Nonostante il mondo di oggi sia interamente globalizzato e la crisi abbia dimostrato l’esistenza di una profonda interconnessione tra minacce e opportunità esiste un posto dove, contro ogni buon senso, steccati ideologici e logiche da veti incrociati godono di ottima salute. Questo posto, ahimè, è l’Italia. Dove, sulla spinta di una incipiente campagna elettorale che si preannuncia al solito muscolare, i partiti politici paiono apprestarsi a chiedere il voto degli italiani innalzando barriere, rispolverando vieti slogan e, soprattutto, facendo finta che la parentesi del governo tecnico sia stata un accidente passeggero e non un punto di svolta per gli anni a seguire.
Il problema, come notato giustamente dal mio collega Sandro Bondi sul Foglio di ieri, è che si fatica a capire che “le famiglie politiche in cui tradizionalmente si è divisa la vita politica hanno perso progressivamente pregnanza fino a diventare un puro nominalismo filosofico”. Schiavi di un riflesso pavloviano fuori tempo massimo, ci si trincera dietro vecchie armature identitarie nella convinzione, erronea, che gli italiani non abbiano capito che un quadro politico nuovo esige forme di rappresentanza altrettanto nuove.
Non che si stia invocando forzatamente la perpetuazione dell’armistizio di oggi, figlio di una situazione emergenziale e pertanto destinato a rimanere un unicum. Quello di cui il nostro paese ha bisogno è un cambio di mentalità da parte delle forze politiche. Solo quando queste ultime avranno capito che il bivio di fronte al quale si trovano è quello tra concorrere al fermo dell’Italia o essere coautore della costruzione nazionale sarà per loro possibile individuare la strada giusta da intraprendere: quella della responsabilità, che porta a mettere l’interesse nazionale al centro di tutto. “Italy first”, insomma, e non più “partisanship first”.
Questa sfida, va da sé, riguarda in primo luogo lo schieramento di centrodestra, impegnato com’è a ripensarsi in profondità – dal nome alla strategia – in vista dell’appuntamento elettorale. La scelta è tra una politica urlata, demagogica e irresponsabile che porta all’isolamento e a una scelta di opposizione piuttosto che di corresponsabilità per il bene del paese. E dall’altra parte, invece, una politica seria, europeista e matura che consenta di concorrere a una nuova stagione di rilancio e sviluppo per l’Italia. Come giustamente osserva il mio collega Gaetano Quagliariello ancora sul Foglio di ieri, per il futuro del centrodestra e del nostro paese è opportuno pensare ai progetti e alle proposte, cogliendo per esempio le debolezze di una parte della sinistra rispetto all’esigenza ineluttabile di maggiore integrazione europea anche a scapito della sovranità nazionale, e al tempo stesso pensando che le famiglie politiche in Europa si confrontano e talvolta si scontrano sulla visione per il futuro delle famiglie e delle imprese e non su veti ideologici o peggio come accade talvolta in Italia su pregiudiziali personali. Su questo il cantiere di riflessione aperto dal Foglio costituisce certamente una buona opportunità in queste settimane di chiacchiere pressoché inutili e di totoelezioni.
Un’opportunità buona, poi, anche per continuare ad affermare un principio elementare. Che è giusto presentarci alle elezioni, quando saranno, con un nostro profilo alternativo ma che è altrettanto giusto essere realisti e dire che oggi sarebbe da sciagurati dire che, comunque andrà, la grande coalizione è un’ipotesi da escludere: vorrebbe dire davvero mettersi fuori dal progetto e dalla natura del Pdl.
di Franco Frattini