La Corte d’Assise ha interrotto la brutta commedia in scena nel teatro dell’assurdo dove qualcuno immaginava di trasformare la testimonianza di Giorgio Napolitano in un festival mediatico alla presenza di Riina e Bagarella. L’intenzione nemmeno troppo dissimulata era di fare del presidente della Repubblica, nell’immaginario collettivo, il vero «boss dei boss», derubricando il ruolo dei mafiosi imputati a quello di semplice manovalanza o poco più.
In questo drammatico ribaltamento dei ruoli, a uscirne a pezzi erano ovviamente le istituzioni. Ma si capisce che da tempo a Palermo l’obiettivo di chiarire la verità dei fatti, ossia eventuali obliqui rapporti fra pezzi dell’apparato statale e ambienti di mafia, si lega alla tentazione di imporre con il massimo fragore possibile uno schema pre-definito: ossia la tesi secondo cui i veri mandanti o complici della mafia occupano posizioni insospettabili nel cuore dello Stato. Una tesi politica, per non dire ideologica, i cui effetti immediati sono le scie velenose destinate a inquinare la percezione che i cittadini hanno delle istituzioni e a impedire di fatto quel recupero di credibilità che resta indispensabile per tamponare la disgregazione della vita pubblica.
Rispetto a tale insidia la pronuncia della Corte ha evitato l’oltraggio esplicito al Quirinale, ma non ha cancellato il tentativo di delegittimazione che proseguirà in varie forme e in diverse fasi. È un tentativo che si può interpretare anche come la coda di un’attitudine politica quasi esaurita nel paese, ma che è stata in grado per anni di condizionare l’opinione pubblica e di esercitare una sorta di egemonia su certe correnti della sinistra. La teoria del «doppio Stato», secondo cui il vero volto delle istituzioni o degli apparati statali è quello oscuro e criminale nascosto sotto una falsa facciata di convenienza, ha prodotto non pochi danni. Soprattutto ha tagliato le radici culturali di una sinistra che via via aveva perso l’ideologia e in qualche caso anche gli ideali.
Oggi bisogna dar ragione a Orfini, presidente del Pd, quando dichiara che questa sinistra, o quel che ne resta, «è ormai in crisi irreversibile». Si riferisce alla grottesca battuta di Sabina Guzzanti su “twitter”, con la quale si esprimeva solidarietà a Riina e Bagarella. È probabile che l’attrice abbia voluto soprattutto fare pubblicità a un suo film che incontra qualche difficoltà nelle sale. E tuttavia c’è una logica nella sua frase: il tentativo giudiziario-mediatico di mettere le istituzioni sul banco degli imputati e di criminalizzare in un modo o nell’altro i singoli, da Nicola Mancino agli ufficiali dei carabinieri, gettando fango anche su Napolitano, porta a conseguenze estreme.
Appunto a considerare i mafiosi, anche se si chiamano Riina e Bagarella, quasi delle vittime del sistema meritevoli di una parola solidale. Tutto è paradossale, naturalmente. Un gioco di specchi in cui si può sempre dire che quella frase non va presa sul serio perché ricade nella licenza artistica attribuita alla satira. Ma nel frattempo il messaggio è filtrato. È plausibile che questa sinistra, se di sinistra si tratta, sia ormai solo auto-referenziale. Tuttavia può essere cancellata solo da una politica seria. Una riforma della giustizia senza sudditanza psicologica verso le corporazioni è senza dubbio la strada giusta. Anche qui Renzi ha in mano le carte giuste, se avrà il coraggio di giocarle senza farsi intimidire.