Ricordo

I 100 anni della Prima Guerra Mondiale

Gli effetti della Prima Guerra Mondiale sull’evoluzione dei rapporti internazionali e l’istituzione delle organizzazioni internazionali
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L’ordine westfaliano della Comunità internazionale alla prova della storia dal 1648 al 1918
Il decorso della storia fornisce al diritto internazionale ora la sua culla, ora la sua tomba, ora gli strumenti per la sua rinascita, a seconda delle configurazioni nel tempo della distribuzione del potere sul globo.

La nascita del sistema moderno di regole giuridiche internazionali viene generalmente ricondotta all’epoca della formazione degli Stati nazionali, comunemente identificata con la fine della Guerra dei Trent’anni, sancita dalla Pace di Westfalia del 1648. Il significato simbolico di questo evento è quello di segnare la fine di un tipo di distribuzione gerarchica del potere, quindi anche della potestà regolamentare, che trovasse il suo vertice nell’Impero o nel Papato. In alternativa a quest’ultima prospettiva, si è affermata una distribuzione del potere tra una pluralità di “aggregati” la cui sovranità nazionale non ammetteva autorità ad essi superiore. Da qui la finzione giuridica della “eguaglianza sovrana” tra gli Stati, che identifica sovranità con indipendenza. Così, gli Stati europei, dall’Inghilterra alla Russia, formalmente pari ordinati tra loro, mossi da interessi concorrenti, a volte anche confliggenti, ma ispirati a valori e modelli di comportamento omogenei, si sono forniti di un bagaglio assai limitato di regole giuridiche, basate sulla reciprocità, che assicurassero un regime di libera concorrenza politico-militare ed economica.

Sostanzialmente, tali regole miravano a garantire la comunicazione attraverso la tutela della funzione diplomatica, uno standard minimo di trattamento dei rispettivi cittadini all’estero e dei loro beni e diritti economici, la libertà dei mari e minime regole di condotta nelle ostilità belliche, che ne contenessero le atrocità, compatibilmente con la c.d. necessità militare.

Il modello westfaliano della comunità internazionale non è una teoria delle relazioni internazionali, ma una espressione indicativa di una situazione di fatto di distribuzione pluralistica del potere sulla scena internazionale in una prospettiva inizialmente eurocentrica del diritto internazionale. Tale scenario di riferimento si è mantenuto per quattro secoli, seppure a geometrie variabili, resistendo ai diversi tentativi di egemonizzazione verticistica di tipo imperiale.

Il primo di tali tentativi egemonici è stato esperito da Napoleone Bonaparte che, sulla spinta ideologica della Rivoluzione francese, ha tentato di imporre all’Europa continentale la superiorità della Francia. Il secondo tentativo è rappresentato dalla politica di ingerenza condotta dagli Stati membri della Santa Alleanza (si pensi all’intervento in Italia per reprimere i moti del 1821). Tuttavia, l’intervento dell’Alleanza a presidio della Restaurazione suscita ben presto la netta opposizione degli Stati Uniti, preoccupati che Spagna e Portogallo intendessero riconquistare le colonie americane che, nella quasi totalità, avevano approfittato della crisi del periodo napoleonico per rendersi indipendenti. Il terzo tentativo egemonico, esperito durante la prima guerra mondiale dagli imperi austro-ungarico, germanico ed ottomano, è invece fallito per la ferma reazione degli Stati dell’Intesa. Infine, nel corso della seconda guerra mondiale, il tentativo delle potenze dell’Asse Tripartito (Germania, Italia, Giappone) di instaurare un “nuovo ordine internazionale”, incentrato su un’ideologia militaristica ed imperialistica, è stroncato dalla coalizione degli Stati portatori delle istanze pluralistiche, democratiche ed anorganiche dell’ordinamento internazionale. La consacrazione definitiva della concezione c.d. copernicana affermatasi con la Pace di Westfalia (in antitesi a quella tolemaica propria dell’età medioevale) si ha alla fine del secondo conflitto mondiale, con la nascita delle Nazioni Unite, un’organizzazione internazionale a carattere universale e permanente.

Tale assetto internazionale non ha costituito la realizzazione di un modello teorico politico e giuridico superiore ad altri, per quanto preferibile rispetto ad un modello monocratico, bensì il risultato della combinazione delle forze della Storia. A fronte di un diverso risultato del processo storico-politico, che avesse condotto ad una concentrazione di tipo egemonico-imperiale del potere nelle relazioni internazionali, avremmo avuto un diritto internazionale basato su paradigmi completamente diversi da quelli sperimentati, verosimilmente di tipo gerarchico-istituzionale e verticistico, affini a quelli degli ordinamenti nazionali ad alta caratterizzazione federalista.

La Grande Guerra e i suoi effetti sulla storia del mondo
La prima guerra mondiale rappresentò una frattura profonda nella storia del mondo contemporaneo. L’epoca che si era aperta con l’illuminismo, la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale, caratterizzata dalla fiducia nel progresso economico e civile, nella scienza, nella ragione individuale e collettiva, trovò in essa la sua drammatica conclusione. Al tempo stesso, la guerra produsse trasformazioni profonde nell’economia, nella politica, nella società, imponendo la faticosa ricerca di nuovi equilibri. In particolare, i principali fattori di mutamento indotti dalla Grande Guerra furono: la crisi della secolare egemonia economica e politica dell’Europa nel mondo, la crescita del ruolo dello Stato nell’economia; la mobilitazione delle masse, l’intensificazione dei conflitti sociali e la crisi delle istituzioni liberali.

a) La fine dell’egemonia europea
La prima e forse più importante eredità del conflitto fu la fine dell’egemonia europea: l’Europa del primo dopoguerra non era più il centro economico politico del mondo. La prima guerra mondiale, in quanto guerra fratricida tra europei, fa cadere quel senso di appartenenza ad un’unica realtà civile, geopolitica, economica e sociale. A ciò si accompagna nel dopoguerra la percezione di un ridimensionamento del ruolo primario fino ad allora svolto, “in solitudine”, dall’Europa sulla scena mondiale. Nel contempo si affaccia sulla scena una nuova potenza: gli Stati Uniti, che comincia ad occupare il ruolo prima proprio dell’Europa.

La produzione industriale statunitense crebbe sino a rappresentare, negli anni venti, la metà di quella mondiale, mentre enormi risorse economiche erano state bruciate nel conflitto dagli Stati europei, che ricorsero all’aiuto americano per miliardi di dollari. Accadde così che, quando le armi tacquero, tutte le potenze del continente si trovarono pesantemente indebitate nei confronti degli Stati Uniti, che divennero non solo i maggiori produttori, ma anche i maggiori creditori mondiali. Questo mutamento economico ebbe ovvi riflessi anche sul piano politico: fu in questa fase che gli Stati Uniti abbandonarono il tradizionale isolazionismo ed iniziarono ad assumere un ruolo politico internazionale di primo piano, corrispondente al loro primato economico.

b) Una guerra “totale”
La guerra ebbe enormi conseguenze anche sul piano economico e sociale. Essa vide realizzarsi per la prima volta il terribile connubio tra apparato militare, industria e tecnologia e il coinvolgimento dell’intera popolazione civile. Ebbe inoltre grande slancio l’intervento dello Stato nell’economia, per la necessità di sostenere lo sforzo produttivo necessario a reggere la sfida militare.

Infine, il conflitto accelerò l’entrata delle masse sulla scena politica, dando nuovo ruolo e importanza ai ceti subalterni (operai e contadini) e alle donne.

c) Le eredità economiche
Ma più importanti furono le conseguenze economiche del conflitto sul medio e lungo periodo, tra cui la crescita dell’intervento dello Stato nell’economia, dovuta alla necessità di determinare la produzione, sia militare sia civile, in base alle esigenze belliche; l’ulteriore sviluppo della concentrazione industriale, con la crescita di grandi imprese capaci di realizzare enormi investimenti per la produzione bellica traendone enormi profitti; e l’accelerata innovazione tecnologica e organizzativa delle grandi imprese industriali, che le mise in grado di effettuare il grande balzo verso la produzione di massa che caratterizzò il periodo fra le due guerre e il secondo dopoguerra.

d) Tensioni e trasformazioni sociali
La grande guerra comportò una grande mobilitazione delle masse, al fronte come nelle fabbriche: finito il conflitto, si dovette dunque fare i conti con una partecipazione alla vita politica di dimensioni fino a quel momento sconosciute.

La guerra comportò infatti una rapida maturazione della coscienza collettiva: milioni di uomini divennero consapevoli del loro ruolo sociale: milioni di donne, immesse in modo massiccio nella produzione in sostituzione agli uomini al fronte, fecero il loro ingresso nel mondo del lavoro, acquisendo autonomia e indipendenza economica.

Questo nuovo protagonismo delle masse, nel contesto di una situazione di grave disagio sociale ed economico (inflazione, razionamento, disoccupazione dovuta alla riconversione industriale), si tradusse in un rafforzamento del movimento operaio e contadino e nell’apertura di una fase di intensi conflitti, con rivendicazioni sostenute da imponenti scioperi. Nello stesso tempo, l’esempio della rivoluzione russa agiva come uno stimolo potente a indirizzare la lotta politica e sindacale verso obiettivi rivoluzionari.

Ma accanto alle lotte sociali di matrice socialista, che trovarono la loro base di massa nel proletariato agricolo e industriale, un grave disagio attraversava anche i ceti medi, che avevano generalmente fornito i quadri intermedi degli eserciti e che si trovavano ora, reduci dal conflitto, privi di sicurezze economiche, di riconoscimenti sociali, di organizzazione politica. Figure sociali ostili tanto ai “pescicani”, come venivano chiamati i finanzieri e gli speculatori che con la guerra si erano arricchiti, quanto agli operai sindacalizzati e politicizzati, che ottenevano risultati e concessioni dai governi grazie alle loro lotte. Il disagio e il risentimento dei ceti medi fu uno dei fattori che più pesò nella vita politica del dopoguerra.

e) Crisi dei valori democratici
Assai diversi, come vedremo, furono i modi in cui istituzioni liberali e democratiche reagirono a questa situazione: in alcuni casi, dove erano più profondamente radicate, sopravvissero e si trasformarono; in altri crollarono, aprendo la strada all’affermazione di dittature e di regimi totalitari.

In tutti gli Stati, comunque, durante il conflitto, i vertici dello Stato, gli organi del potere esecutivo e i grandi gruppi del potere economico e finanziario dilatarono il loro ruolo decisionale a scapito degli organismi rappresentativi. Le libertà democratiche subirono forti restrizioni; ogni forma di opposizione e dissenso veniva bollata come “disfattismo”. Si era diffusa l’idea che la limitazione della libertà di informazione e la censura fossero legittime “nel superiore interesse della nazione” e che la stampa dovesse svolgere esclusivamente una funzione di propaganda patriottica: un patriottismo che spesso finiva per dipingere il nemico come disumano e, per usare un antico stereotipo, “barbaro”, con accenti apertamente razzistici.

Si vennero anche perfezionando quelle tecniche di manipolazione e di controllo dell’opinione pubblica che, negli anni fra le due guerre, avrebbero avuto un enorme sviluppo, grazie alla diffusione delle comunicazioni di massa.

Durante il conflitto, nelle fabbriche “militarizzate” ogni forma di sciopero fu proibita e duramente repressa; la protesta sociale venne considerata una sorta di tradimento e, conseguentemente, punita con eccezionale severità. Un clima di intolleranza e di autoritarismo si diffuse nelle strutture politiche e nella stessa opinione pubblica, segnando una profonda crisi dei valori liberali e democratici: è su questo terreno che nasceranno e si affermeranno, in alcuni paesi europei, i regimi di tipo fascista.

A ciò, si devono aggiungere gli effetti prodotti dalla rivoluzione in Russia nel 1917; essa non solo determinò una nuova forma di governo nazionale, ma un modello, che la Russia sovietica intendeva esportare su scala mondiale, di rapporti economici che negavano il diritto di proprietà privata e il libero commercio tra privati, infrangendo uno dei pilastri fondamentali su cui si era sviluppata la società internazionale e le relative regolamentazioni giuridiche sino ad allora.

Inizialmente, infatti, la sistematica espropriazione dei beni e privazione dei diritti economici degli stranieri nella Russia sovietica ha violato le tradizionali regole consuetudinarie sulla protezione e il trattamento degli stranieri. Di lì a poco, il rigetto dell’efficacia giuridica di tali regole da parte dei Paesi comunisti si è inserito in modo significativo nella conflittualità ideologica tra il regime sovietico e il mondo capitalista e liberista, fino al disconoscimento della stessa fonte giuridica da cui si erano formate tali regole: la consuetudine.

Quest’approccio giuspositivistico e ipervolontaristico bene si adattava alle esigenze ideologiche e agli interessi economici del nuovo attore sovietico sulla scena internazionale, che non accettava di essere vincolato da regole basate su modelli comportamentali che non condivideva e che erano maturati consuetudinariamente attraverso un processo plurisecolare cui il nuovo attore sovietico non aveva partecipato. L’esasperazione di questo atteggiamento ipervolontaristico, fino al punto da svuotare di efficacia giuridica con un semplice atto di volontà contrario non solo la consuetudine, ma persino gli accordi internazionali, venne successivamente alimentata con l’avvento dei regimi nazifascisti, contribuendo in modo determinante a quella situazione di malessere collettivo che è esplosa con la Seconda Guerra Mondiale, scatenata e condotta all’insegna della violazione sistematica del diritto internazionale.

Dunque, l’omogeneità di valori e modelli di comportamento tra le potenze europee che hanno costruito il diritto internazionale moderno nel corso di quasi tre secoli si infranse, durante la prima guerra mondiale, con la rivoluzione russa del 1917.

In sintesi, la prima guerra mondiale (unitamente alla nascita dell’URSS) e la nuova realtà economica e politica che ne scaturì ebbero rilevanti conseguenze sul sistema dei rapporti internazionali e sulla sua stabilità. Conclusa la guerra, era vivissima l’esigenza di costruire un ordine mondiale stabile e duraturo, almeno quanto quello edificato un secolo prima con il congresso di Vienna: ma tale esigenza non fu soddisfatta, tanto che dopo neppure due decenni l’Europa e il mondo sarebbero precipitati in un nuovo, devastante conflitto.

Il tentativo di dare un nuovo e stabile assetto all’ordine internazionale dopo la Grande Guerra
Un conflitto così cruento e totale non poteva avere, e non ebbe, una soddisfacente conclusione sul piano diplomatico. Al di là delle affermazioni di principio, le trattative di pace furono condotte dai vincitori in un’ottica nazionalistica e mancò una guida capace di imporre un punto di vista diverso.

Nella definizione dei nuovi equilibri mondiali giocò un ruolo determinante il presidente statunitense Wilson. Egli propose una carta di principi, in cui spiccavano l’autodeterminazione dei popoli e la necessità di dare vita a un organismo sovranazionale (la Società delle Nazioni) capace di dirimere le controversie fra gli Stati. La defezione delle massime potenze da tale organismo vanificò però la sua efficacia.

La carta geografica d’Europa fu ridisegnata cercando di contemperare diverse esigenze: gli interessi dei vincitori, l’isolamento della Russia bolscevica, la soluzione dei problemi sorti dallo sfaldamento dei grandi imperi multinazionali. Ne uscirono decisioni destinate a pesare gravemente sui futuri equilibri politici del continente, come la pace punitiva imposta alla Germania con il trattato di Versailles e la creazione nell’Europa centro-orientale e balcanica di stati plurietnici, focolai di tensioni negli anni a venire.

Di conseguenza, nonostante la speranza che gli accordi raggiunti alla fine della guerra potessero ristabilire una pace duratura, la prima guerra mondiale pose al contrario le premesse di un conflitto ancor più devastante. La situazione geopolitica delineata dai trattati di pace non era affatto equilibrata ed emersero forti contrasti fra i Paesi europei. La Germania era umiliata territorialmente e gravata di riparazioni pesantissime, che le rendevano impossibile la ripresa economica. I nuovi Stati dell’Europa centrale comprendevano entro i propri confini consistenti minoranze etniche, ognuna delle quali desiderava l’indipendenza. Dunque, i “Quattordici punti” di Wilson non erano stati il vero principio ispiratore della conferenza di pace: erano prevalse la volontà di vendetta della Francia e la preoccupazione inglese di preservare il proprio predominio coloniale.

In tale contesto, sono gli Stati Uniti d’America, e per essi il Presidente Woodrow Wilson, ad elaborare un progetto per la costituzione di un organismo internazionale, la Società delle Nazioni, quale sede per la rappresentazione degli interessi specifici, la composizione delle controversie e l’esercizio di una vigilanza attiva sulle violazioni del nuovo sistema di equilibrio. A differenza del Congresso di Vienna, venne assunto a valore fondamentale il principio della nazionalità: “i popoli hanno diritto all’autodeterminazione nazionale … tutte le aspirazioni nazionali ben definite dovranno ricevere la soddisfazione più completa che possa venire accordata”.

Questo l’intendimento ed il sogno. In realtà, l’Europa che emergeva dai trattati di pace di Parigi presentava situazioni contraddittorie, con un assetto del tutto squilibrato. A molte popolazioni non erano state riconosciute le legittime aspirazioni nazionali.

In questo scenario di precarietà e di nuove tensioni, nel 1919, venne istituita la Società delle Nazioni, ma ad essa non parteciparono gli Stati Uniti che, dopo averla promossa, si ritirarono nel loro isolazionismo. La Società delle Nazioni nacque così “zoppa” e finirà per avere un ruolo sempre più debole ed ininfluente nelle relazioni internazionali.

I “Quattordici Punti” del Presidente Wilson: l’idea di un nuovo modello di relazioni internazionali “senza vincitori e vinti”
Gli Stati Uniti del presidente democratico Woodrow Wilson erano in effetti l’unica potenza che si presentava alla fine della prima guerra mondiale con una visione globale dei problemi internazionali sul tappeto. La loro linea era stata tracciata con l’intervento in guerra al fianco dell’Intesa anglo-franco-russa-italiana il 6-7 aprile, secondo l’intento di Wilson di porre fine una volta per tutte – con la vittoria delle democrazie a guida statunitense e la sconfitta del militarismo prussiano – a “tutte le guerre” e rendere così il mondo “sicuro per la democrazia”.

Il programma internazionalista di Wilson venne poi fissato nei famosi 14 punti esposti davanti al Congresso l’8 gennaio 1918. I concetti fondamentali racchiusi nei 14 punti comprendevano l’attuazione nel dopoguerra: della “diplomazia aperta”, quale antidoto alla “politica di potenza” praticata fino ad allora dagli Stati, causa prima, secondo Wilson, dello scoppio del conflitto nel 1914

In un quadro globale nel quale gli Stati Uniti, protetti dalla vastità di due oceani e già all’epoca prima potenza economica mondiale, si delineavano come unica potenza rimasta di fatto immune dalla catastrofe della guerra, Wilson intendeva promuovere una “pace senza vincitori”, poiché era convinto che una pace imposta con la forza ai vinti avrebbe contenuto in sé gli elementi di un’altra guerra.

Doveva trattarsi di una pace basata sull’eguaglianza delle nazioni, sull’autogoverno dei popoli, sulla libertà dei mari, su una riduzione generalizzata degli armamenti. La diplomazia “segreta” doveva essere abbandonata. Gli accordi segreti tra potenze avevano infatti caratterizzato buona parte dei passaggi chiave della politica estera negli ultimi decenni; tale stato di cose – noto ai governi, ma ignoto alla pubblica opinione – era stato clamorosamente smascherato poco prima dai bolscevichi i quali, appena giunti al potere in Russia, avevano pubblicato i patti segreti intercorsi tra lo zar deposto e altre potenze dell’Intesa – tra i quali il “Patto di Londra” – nei quali era «prefigurato il futuro dell’Europa e del Medio Oriente con una stupefacente mancanza di riguardo per i desideri o addirittura per gli interessi delle popolazioni delle varie regioni»..

Bisognava, infine, costituire una lega perpetua di tutte le nazioni pacifiche e indipendenti. Infine, il principio di nazionalità – popolarmente rivisitato con il nome di “autodeterminazione dei popoli” – avrebbe dovuto essere la base per la costruzione dell’Europa democratica e degli Stati nazionali.

La politica di Wilson fallì per più ragioni. Di fatto, già durante la conferenza della Pace essa dovette essere annacquata ed edulcorata dal suo stesso autore, poiché gli alleati degli Stati Uniti – Francia e Inghilterra – non vollero attuare quei principi wilsoniani che avrebbero potuto creare ad esempio problemi alla tenuta dei loro imperi coloniali. La Francia volle inoltre, per ragioni relative alla sua sicurezza, che non fosse applicato il principio di nazionalità nel caso tedesco e del riassetto dell’ex Impero austro-ungarico.

Tali principi, pertanto, furono applicati, solo e in parte, all’Europa orientale e al Medio oriente, per riempire il vuoto lasciato dal crollo simultaneo dei tre grandi imperi multi-etnici (quello Russo, quello Asburgico e quello Ottomano), in un processo che, come le più recenti vicende in Crimea dimostrano, non può ancora essere ritenuto concluso. Tuttavia, data la complessità etnica del continente, esso fu anche impropriamente utilizzato come pretesto per vere e proprie pulizie etniche e per la preparazione di nuove guerre, come la seconda guerra mondiale e i conflitti che hanno insanguinato il Medio oriente, nel corso del XX secolo.

L’occasione perduta per elaborare basi geopolitiche nuove per l’ordine internazionale. Egemonia di potenza e la “pace dei vincitori” nella Conferenza di pace di Parigi
Si possono individuare tre situazioni-chiave per comprendere la logica delle decisioni prese alla Conferenza di Parigi. La dissoluzione dell’impero Austro-ungarico, la dissoluzione dell’impero Ottomano e la sconfitta della Germania protagonista di un espansionismo crescente per tutto il secolo XIX e nel primo squarcio del XX, costituirono il primo punto di grande rilevanza ereditato dal 1918. Al tavolo delle trattative aleggiava il fantasma del comunismo; l’instaurazione del regime dei Soviet aveva trasformato l’utopia della rivoluzione in una prospettiva realistica. La forte instabilità politico-sociale dell’immediato dopoguerra portò a situazioni pre-rivoluzionarie in Germania, in Italia e in Ungheria. Era chiaro che la prospettiva rivoluzionaria agiva su un terreno diverso dalla mera presa del potere. La sua forza era data dal muoversi sul campo dell’ideale; non gestione dell’esistente ma trasformazione: ridefinizione della società, delle gerarchie, del rapporto tra Stato e cittadini e tra classi sociali. Dal 1917 una realtà e un modello, non più una promessa e una teoria.

L’idealismo del presidente Usa W. Wilson fu la risposta dei paesi democratici-capitalisti all’idealismo socialista. Serviva una controproposta sul terreno imposto dal movimento socialista internazionale (una sorta di “autodeterminazione sociale”) e l’autodeterminazione nazionale rispondeva a questa esigenza. Anche se nei punti di Wilson non c’era solo questo, il collegamento tra identità comune e volontà di essere nazione indipendente, diventò rapidamente l’aspetto fondamentale della propaganda dei Paesi vincitori.

Le trattative a Parigi furono incentrate su quattro fondamentali questioni da risolvere: 1) creare un “cordone sanitario” intorno alla Russia. Per isolare la repubblica bolscevica si pensò di creare un cordone sanitario di Stati anticomunisti. Da nord verso sud questi stati erano nell’ordine: la Finlandia, regione autonoma dell’impero zarista alla quale Lenin concesse la secessione (valse il principio dell’autodeterminazione); i paesi baltici Estonia, Lituania e Lettonia senza alcun precedente storico, ma di etnia nettamente distinta da quella russa; la Polonia a cui fu restituita l’indipendenza dopo 120 anni; la Romania diventata quasi il doppio del territorio del 1914 per le annessioni di vaste regioni dell’impero austro ungarico e della Bessarabia. Non riuscì invece il tentativo di inserire nella fascia di protezione i Paesi del Caucaso, l’Arzeibajan e la Turchia. I primi furono inglobati nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, mentre la Turchia a seguito della rivoluzione (non comunista) perseguì una politica antimperialistica e firmò uno specifico trattato bilaterale con la Russia nel 1921. 2) Tenere sotto controllo la Germania. Nei trattati con la Germania prevalse l’interesse nazionale della Francia per indebolire permanentemente il pericoloso vicino. La cosiddetta “pace punitiva” si articolava sia in clausole non territoriali, come, ad es., la riduzione dell’esercito sotto i 100.000 uomini e della flotta a funzioni di difesa costiera, sia in clausole territoriali, ad es., trasferimento del bacino carbonifero della Saar alla Francia per 15 anni e trasferimento definitivo dell’Alsazia-Lorena alla Francia. 3) Costituire la Società delle Nazioni. 4) Ridisegnare e ridefinire la cartina geopolitica dell’Europa, operazione che venne condotta secondo un meccanismo ben lontano da quello dell’autodeterminazione propugnato da Wilson.

Sono passati cento anni dallo scoppio della prima guerra mondiale e, parafrasando le valutazioni di Hobsbawm (autore del notissimo saggio “Il secolo breve”) circa la guerra nella ex-Jugoslavia – possiamo dire che: “I conflitti nazionali che lacerano alcune aree europee ai nostri giorni altro non sono che i nodi di Versailles che ancora una volta vengono al pettine”.

Lo spiraglio verso un ordine mondiale tra Stati “eguali” garanti del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La nascita della Società delle Nazioni
Nel 1919 i costi materiali e umani del conflitto appena terminato rafforzarono le tesi dell’internazionalismo wilsoniano, miranti a costituire un sistema di sicurezza collettiva. Sull’onda del pacifismo e dell’internazionalismo del presidente americano, venne costituita la Società delle Nazioni, che doveva avere un carattere universale e una forza politico-organizzativa tale da impedire l’esplodere di nuove crisi e conflitti. Tuttavia, questo slancio ideale (e ideologico) poggiava di fatto sull’incontro tra le aspirazioni wilsoniane e le ambizioni delle potenze europee vincitrici, difficilmente conciliabili in uno schema di portata globale. Il significato ultimo della formula ‘sicurezza collettiva’ veniva così interpretato principalmente alla luce del bisogno di sicurezza di ciascuno dei singoli vincitori contro ogni tentativo di rinascita da parte dei vinti. Il risultato fu che la Società delle Nazioni non diventò quell’organizzazione universalistica che la salvaguardia della pace universale avrebbe richiesto e si piegò invece agli equilibri di potenza, che tradizionalmente avevano diviso il Vecchio Continente.

Le motivazioni principali che ispirarono la creazione della Società delle Nazioni furono originariamente due, solo parzialmente connesse. In primo luogo, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia pensarono di avere in tal modo trovato lo strumento per controllare giuridicamente la Germania sconfitta e politicamente la Russia rivoluzionaria. La volontà di emarginare l’Unione Sovietica nasceva inoltre dal desiderio di scongiurare ogni pericolo di sovversione sociale di tipo comunista e, al tempo stesso, di garantire la libertà degli scambi economici mondiali.

L’aspirazione universalistica venne ulteriormente ridotta quando, a partire dal 1920, gli Stati Uniti, con la mancata ratifica del Trattato di Versailles – nel quale il Patto della Società delle Nazioni era incorporato – adottarono una politica estera isolazionista.

La Società della Nazioni riuscì così a nascere, ma purtroppo priva di quegli stessi Stati Uniti che avrebbero dovuto provvedere a farla funzionare adeguatamente, mediando tra le altre potenze e mettendo in campo all’occorrenza contro gli aggressori – nel caso appunto di crisi internazionali – il loro già formidabile potenziale militare ed economico.

La mancata partecipazione degli Stati Uniti alla Società delle Nazioni fu dovuta al fatto che il Senato americano, nel novembre 1919, negò la sua ratifica sia al Trattato di Versailles sia all’annesso Patto della Società delle Nazioni. In questo caso, il Senato, bocciando la politica internazionalista di Wilson, si fece interprete del bisogno sentito dall’opinione pubblica americana di un “ritorno dalla normalità”, cioè all’isolazionismo dopo la parentesi della guerra, per far sì che gli Stati Uniti non restassero perennemente coinvolti nelle diatribe tra le nazioni d’Europa.

Tuttavia, gli Stati Uniti si estraniarono in tal modo dalle questioni politiche e militari europee ma non da quelle economiche, poiché pretesero ad esempio che gli ex alleati pagassero nel dopoguerra i debiti contratti con l’America durante il conflitto. Ciò creò una spirale di recriminazioni che avrebbe avvelenato le relazioni transatlantiche almeno fino alla metà degli anni ’20, anche perché gli europei protestavano che gli Stati Uniti, con un atto di liberalità, avrebbero dovuto piuttosto condonare loro i debiti, dato che l’Intesa aveva combattuto anche nell’interesse dell’Unione d’oltreoceano contro la Germania.

Con la mancata ratifica del Trattato di Versailles, peraltro, venne a cadere anche un altro pilastro del sistema pensato da Wilson per rendere impossibile una nuova guerra: il Trattato di Garanzia anglo-americano promesso alla Francia, che avrebbe potuto rassicurare quest’ultima di fronte alla minaccia di rinascita della potenza tedesca, non spingendola quindi a provvedere autonomamente alla propria sicurezza. Lo scoppio della Grande Depressione, nel 1929, acuì infine la percezione degli Stati Uniti quale potenza propensa a volersi estraniare dagli affari europei ed estremo-orientali, il che dava il suo contributo allo scoppio della nuova tragedia nel 1939.

Da allora, gli interessi predominanti della Francia e della Gran Bretagna condizionarono la vita della Società, come del resto venne dimostrato sul piano coloniale dall’istituzione dei mandati. Sul principio wilsoniano di autodeterminazione dei popoli prevalse infatti l’interpretazione secondo cui le popolazioni di certi territori non erano in grado di governarsi da sé (art. 22 del Patto della Società delle Nazioni) e, per tale ragione, esse venivano affidate ai Paesi più ricchi di esperienza in materia, cioè – paradossalmente – ai grandi imperi coloniali.

Inoltre, a seguito del ritiro degli Stati Uniti, si modificarono gli equilibri di potere tra gli Stati partecipanti e l’Italia acquistò il rango di ‘terzo grande’, ruolo sproporzionato rispetto alle sue capacità d’azione, ma non alle ambizioni di un nazionalismo prorompente, che di lì a poco, con la formazione del primo governo Mussolini (ottobre 1922), sarebbe assurto a posizioni di potere.

In particolare, il compito di redigere lo statuto dell’organizzazione fu affidato a una speciale commissione. Come presidente della commissione fu scelto lo stesso Woodrow Wilson assecondando il suo volere. Oltre al presidente statunitense la commissione annoverava tra i suoi membri anche gli italiani Vittorio Emanuele Orlando e Vittorio Scialoja. Una versione definitiva dello statuto della Società delle Nazioni fu approvata il 28 aprile 1919 e inserita nella prima parte del Trattato di Versailles del 1919 (articoli 1-26). Il trattato fu firmato nella Galleria degli Specchi del Palazzo di Versailles (Versailles, Francia) il 28 giugno 1919 da 44 Stati (31 di essi avevano preso parte alla prima guerra mondiale al fianco della Triplice Intesa).

I lavori della Società delle Nazioni ebbero ufficialmente inizio il 10 gennaio 1920 a Londra (Regno Unito), città scelta inizialmente come sede della neonata organizzazione internazionale. Pochi giorni dopo, il 16 gennaio 1920, a Parigi (Francia) si riunì per la prima volta il Consiglio della Società delle Nazioni, mentre 1º novembre 1920 la sede della Società delle Nazioni fu spostata da Londra a Ginevra (Svizzera), nel Palazzo Wilson, dove il 15 novembre dello stesso anno fu tenuta la prima Assemblea Generale con le rappresentanze di 41 Stati.

In base al Patto, gli Stati membri si impegnavano a rispettare e mantenere l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dei membri della S.d.N. contro ogni aggressione esterna (art. 10) e a non ricorrere alle armi in caso di controversie prima di avere esperito mezzi di soluzione pacifica, compreso il deferimento agli organi societari (artt. 11-15); per le violazioni, era prevista l’applicazione di sanzioni economiche ed eventualmente militari, rispetto alle quali il Consiglio esercitava un potere di raccomandazione (art. 16).

Da un punto di vista formale – secondo l’art. 2 -, gli organi della Società delle Nazioni erano l’Assemblea, composta dai rappresentanti di tutti gli Stati membri, e il Consiglio, composto dalle ‟principali potenze alleate” e da un numero variabile di potenze minori. Il Consiglio era l’organo di governo della Società, affiancato da un Segretariato con funzioni esecutive. Tanto il Consiglio quanto l’Assemblea deliberavano all’unanimità sulle questioni politiche (e a maggioranza su quelle procedurali), con l’esclusione – se si trattava di una controversia tra paesi – delle parti in causa.

Lo scopo primario – garantire la pace – era affidato a un corpo di norme preventive e repressive. Tale meccanismo di soluzione dei conflitti, per quanto articolato nella parte di prevenzione, mancava tuttavia di ogni strumento per l’esecuzione coattiva delle decisioni eventualmente prese. Infatti, l’adozione di sanzioni (art. 16), pur essendo la più severa tra le disposizioni previste, era di fatto la meno efficace, poiché la natura e la durata delle sanzioni stesse veniva demandata alla buona volontà delle parti. Qualora le misure preventive non fossero state adottate in tempo, sarebbe diventato manifesto che il funzionamento del sistema era concettualmente basato sul consenso e non su norme cogenti.

Il Patto, dunque, non poneva un obbligo assoluto di rinuncia alla guerra. Lo stesso Preambolo del Patto chiariva che la promozione della cooperazione internazionale ed il conseguimento della pace e della sicurezza andavano perseguiti, tra l’altro, attraverso l’impegno di non ricorrere “in determinati casi” alle armi. I membri della Società delle Nazioni avevano l’obbligo di sottoporre “ogni controversia tale da condurre ad una rottura” ad una procedura di arbitrato o di regolamento giudiziale ovvero all’esame del Consiglio della Società; ma la decisione arbitrale o giudiziale, così come il rapporto del Consiglio, non producevano effetti determinanti, vincolando soltanto gli Stati a non ricorrere alle armi prima che fosse trascorso un periodo di tre mesi (art. 12). Il Patto considerava inoltre lecite ed ammissibili, oltre che le ipotesi di legittima difesa, le guerre giustificate dalla difesa di un diritto che il diritto internazionale lasciava alla competenza esclusiva degli Stati, le guerre dirette contro uno Stato colpevole di una violazione del diritto internazionale, che si rifiutava di eseguire una decisione arbitrale o giurisdizionale o di conformarsi al rapporto adottato all’unanimità dal Consiglio della Società, e le guerre intraprese qualora il Consiglio non fosse riuscito ad adottare tale rapporto o lo avesse adottato a maggioranza e non all’unanimità.

D’altra parte, la Società delle Nazioni non istituiva alcun meccanismo di attuazione coercitiva del diritto nei confronti di uno Stato membro che violasse le disposizioni del Patto: da un canto, l’Assemblea e il Consiglio della Società potevano soltanto raccomandare misure sanzionatorie nei confronti degli Stati parte, dall’altro, i membri della Società avevano la “facoltà” – non già l’obbligo – di reagire collettivamente alle violazioni di uno Stato parte.

Allorché il consenso sugli scopi primari della Società venne meno, anche le sue possibilità di rappresentare un sistema di sicurezza collettivo diminuirono in proporzione. Il consenso, basato principalmente sulla funzione antitedesca e antisovietica dell’organizzazione, iniziò a sfaldarsi nel momento in cui, dopo gli accordi di Locarno del 1925, il pericolo tedesco sembrò superato e la Germania venne ammessa nella Società delle Nazioni, ottenendo un seggio permanente nel Consiglio. Nel 1934, un anno dopo il ritiro di una Germania divenuta nazista e nient’affatto pacificata, l’Unione Sovietica entrò con un seggio permanente nella Società delle Nazioni, segno che anche l’altro pilastro su cui era stata fondata l’organizzazione aveva perso ogni consistenza e che la Società era svuotata di un suo connotato politico univoco.

I successi raggiunti dall’organizzazione furono pochi, desidero però menzionarne alcuni perché costituiscono precedenti importanti, oggetto tuttora di studio attento dalla dottrina internazionalistica. Intendo riferirmi alla soluzione trovata dalla SdN alla controversia sulle Isole Åland. Le Åland sono un arcipelago di circa 6.500 isole a metà strada tra la Svezia e la Finlandia, all’ingresso del Golfo di Botnia. La maggioranza assoluta della popolazione parla come lingua madre lo svedese, ma nel 1809 la Svezia fu costretta a cedere sia le isole sia la Finlandia all’Impero Russo. Quando però la Finlandia nel dicembre del 1917, a seguito delle sommosse scoppiate in Russia durante la rivoluzione di ottobre, dichiarò la propria indipendenza, gli abitanti delle Åland manifestarono la volontà di tornare a essere parte della nazione svedese; la Finlandia però non riconobbe le loro ambizioni, ritenendo che le isole spettassero alla nazione finlandese. Il governo svedese espose il problema alla Società delle Nazioni nel 1921 e dopo attente considerazioni la Società stabilì che le isole sarebbero rimaste alla Finlandia, ma avrebbero avuto un governo locale autonomo, per scongiurare una possibile guerra tra i due Stati.

Alla controversia sul confine tra Albania e Jugoslavia. A seguito dell’occupazione militare da parte della Jugoslavia che occupò militarmente alcuni territori albanesi. Dopo alcuni scontri con le locali comunità schipetare, l’esercito jugoslavo continuò l’avanzata. La Società delle Nazioni inviò così una commissione speciale che risolse il conflitto in favore dell’Albania e ristabilì i confini originari.

Alla controversia sull’Alta Slesia tra Germania e Polonia. Il trattato di Versailles stabilì che nella Slesia venisse indetto un plebiscito per determinare se i territori dovessero esser parte della Germania o della Polonia. La discriminazione contro i polacchi portò ad alcune rivolte e insurrezioni. I risultati del plebiscito raccolsero una maggioranza di voti per il ritorno della Slesia alla Germania (59,6%, circa 500.000 persone), portando ad un’altra insurrezione nel 1921. Fu richiesto l’intervento della Società delle Nazioni; nel 1922 un’indagine durata una settimana stabilì che la terra doveva essere divisa e la decisione fu accettata sia dalla Germania sia dalla Polonia, sia dalla maggior parte della popolazione locale.

E infine, alla controversia sul territorio di Memel, tra Germania e Lituania. La città portuale di Memel, e la regione circostante, furono affidate al controllo della Società delle Nazioni dopo la fine della prima guerra mondiale e fu governata da un generale francese per tre anni. Nonostante la maggior parte della popolazione fosse principalmente composta da tedeschi, la confinante Lituania rivendicò il territorio interessato, e lo invase nel 1923. La Società delle Nazioni concesse il territorio attorno alla città al governo lituano, ma impose che i principali sobborghi e il porto divenissero una zona internazionale evitando guerre o interventi armati diretti.

Maggiori però furono gli insuccessi della Società delle Nazioni, così che, priva di reale significato, essa sopravvisse per un certo periodo, ma nella forma di un’armatura vuota. Già in occasione della crisi di Corfù (1923) essa mostrò i propri limiti, evitando di accollarsi responsabilità strettamente legate alla sicurezza generale. Con la crisi in Manciuria (1931-1932) la capacità dell’organizzazione in materia di soluzione dei conflitti si rivelò ancora più carente, e l’unico risultato fu semplicemente il ritiro del Giappone dalla Società. Nel tentativo di mediare, nel 1935, tra l’Italia e l’Etiopia, ambedue paesi membri dell’organizzazione, la Società delle Nazioni dimostrò interamente la propria inefficacia: dopo l’aggressione italiana, gli stessi paesi che avevano votato, nell’ambito del Consiglio, per l’applicazione di sanzioni economiche (peraltro di non vitale importanza) contro l’Italia, di fatto non le applicarono, finché la Società ammise pubblicamente il fallimento e le ritirò, subendo le conseguenze dell’aggressione italiana e della debellatio di uno dei paesi membri per opera di una ‘grande potenza’.

Nel periodo che va dal 1933 – quando in seguito alla crisi mancese uscirono prima il Giappone e, poco dopo, per le controversie in tema di disarmo, la Germania hitleriana e revisionista – al 1936, anno in cui fallirono le sanzioni all’Italia, l’incapacità della Società delle Nazioni di dare corpo a una concezione globale dell’ordine europeo e mondiale divenne dunque irreversibile. Non solo le crisi che si susseguirono non ottennero risposte concrete, ma anche i meccanismi di sicurezza creati dalle potenze vennero adottati al di fuori del sistema della Società delle Nazioni. Sebbene quest’ultima fosse stata concepita come sistema di sicurezza collettiva, gli Stati europei la istituzionalizzarono e la adoperarono in modo che non contraddicesse, ma anzi coadiuvasse le rispettive politiche di potenza. In caso contrario, le potenze europee preferirono senza esitazione altri metodi per la tutela dei loro interessi.

Le posizioni degli Stati europei rispetto ai principi wilsoniani e alla Società delle Nazioni
Di fatto, come è noto, la Conferenza della Pace di Parigi e la Società delle Nazione, non raggiunsero l’obiettivo di restaurare una pace quanto più duratura possibile, dare un durevole assetto al pianeta e rifondare il sistema delle relazioni internazionali, a causa della politica divergente e intrinsecamente debole, nelle sue decisioni e nei suoi risultati, delle maggiori potenze.

Se la Francia non ostacolò i programmi wilsoniani riguardo alla nascita della Società delle Nazioni, la sua politica in vista del dopoguerra fu però dettata da progetti che si situavano all’opposto del pensiero wilsoniano. La Francia, fin dalle prime sedute della Conferenza della Pace, fece capire che essa era dominata dalla necessità di procurarsi una sicurezza inattaccabile nel dopoguerra da parte della Germania. La Francia fece così in modo che nel Trattato di Versailles – oltre a riottenere l’Alsazia e la Lorena perse nel 1870 – fossero contenute clausole che avrebbero dovuto rendere impossibile la rinascita della potenza tedesca. In quel trattato, essa non riuscì ad esempio ad ottenere che la Renania fosse separata politicamente dalla Germania, ma fece in modo che quella regione fosse smilitarizzata; la Germania fu poi disarmata, essendole concesso solo un esercito “difensivo” di 100 mila uomini; e fu anche privata di vasti territori abitati da tedeschi a est e sud-est dei suoi confini. Altro punto escogitato dalla Francia, infatti, fu quello di creare a est della Germania Stati “nuovi” molto estesi, funzionali alla sua sicurezza sia in senso anti-tedesco che anti-sovietico: la Polonia, con il Corridoio verso il Baltico e con Danzica eretta a Stato Libero, sebbene a maggioranza di popolazione tedesca; la Cecoslovacchia con i Sudeti, sempre popolati da tedeschi; la Romania (Stato in realtà non nuovo, ma anch’esso ora molto esteso e con importanti minoranze al suo interno); la Jugoslavia.

La Francia, inoltre, fece risaltare nel Trattato di Versailles il principio della “responsabilità” o “colpa” della Germania per lo scoppio del conflitto, con il corollario che quest’ultima fosse obbligata a pagare i danni di guerra (le riparazioni) alle potenze vincitrici, ovvero in primo luogo alla Francia stessa, per una somma fissata poi in 132 miliardi di marchi-oro. Al principio della sicurezza, perciò, la Francia affiancò ora quello dell’ “esecuzionismo”, ovvero che alla Germania si sarebbe dovuta imporre, all’occorrenza anche con la forza, l’esecuzione delle clausole del trattato di pace, qualora la si fosse voluta tenere in una perenne situazione di subordinazione e impotenza. La politica francese, di fatto, si rivelò poi fallimentare: gli Stati “nuovi” in Europa orientale, che avrebbero dovuto essere suoi fedeli alleati contro la Germania e l’Unione Sovietica, si rivelarono alla prova dei fatti deboli, minati dal fatto stesso di inglobare forti minoranze, ed esposti quindi al revisionismo tedesco e sovietico; le riparazioni, salvo per una somma minima pagata dalla Germania tra il 1919 e il 1929, rimasero lettera morta e non furono più eseguite dalla Germania con lo scoppio della Grande Depressione del 1929.

La Gran Bretagna si presentava anch’essa, al termine della prima guerra mondiale, con progetti funzionali più alla conservazione della sua potenza navale e imperiale, che non al riordino della comunità internazionale secondo i principi wilsoniani. D’altro canto, l’Inghilterra, come la Francia, approfittò ad esempio del sistema dei mandati previsto dal Patto della Società delle Nazioni, per ampliare di fatto il suo impero coloniale, estendendolo soprattutto a quelle parti del Medio Oriente sottratte all’Impero ottomano. L’Inghilterra, tuttavia, seppure aiutò l’alleata Francia a raggiungere i suoi fini, capiva che i principi francesi della sicurezza e dell’esecuzionismo non avrebbero prodotto alcunché di positivo per la pace europea: tenere perennemente ai margini della vita continentale, economica e politica, potenze quali la Germania e la Russia sovietica era infatti per gli inglesi un programma sbagliato. Tuttavia, l’Inghilterra né seppe fare accettare questa sua visione lungimirante dalla Francia, né seppe dare a quest’ultima la sensazione di essere appoggiata realmente dalla potenza inglese. In definitiva, quindi, la politica inglese si risolse in propositi velleitari, che contribuirono a rendere l’Europa del primo dopoguerra di nuovo pronta a scivolare verso un altro conflitto mondiale. Allo stesso tempo, l’Inghilterra non fu in grado – mostrando così già in questi anni i limiti della sua potenza mondiale – di dare alla Società delle Nazioni quella forza che quest’ultima avrebbe dovuto ricevere dagli Stati Uniti.

L’Italia fu la potenza vincitrice di gran lunga più refrattaria ad assorbire a fare propri i programmi wilsoniani. Essa, ancor più della Francia, si presentò alla Conferenza della Pace decisa a raggiungere risultati esclusivi, che avrebbero dovuto fornirle ampliamenti territoriali e di potenza tali che l’avrebbero resa sicura da attacchi esterni e all’altezza di giocare un ruolo di primissimo piano a livello mediterraneo, se non mondiale. Il suo programma massimo fu così ottenere al tavolo della pace compensi riassumibili nella formula del “Patto di Londra più Fiume”: e cioè il Trentino e l’Alto Adige fino al Brennero a nord, per garantire sicurezza al Paese nei confronti del mondo germanico; la Venezia Giulia con Trieste, l’Istria, Fiume, una parte della Dalmazia e Valona, per ottenere la sicurezza a nord-est e ad est al Paese nei confronti del mondo slavo e il dominio dell’Adriatico.

Com’è noto, Wilson, che non era riuscito a ottenere di piegare ai suoi programmi la Francia e l’Inghilterra, pensò invece di contrastare sulla base dei suoi 14 punti proprio le pretese dell’Italia. Egli prese così le difese della Jugoslavia in base al principio di nazionalità. La contrapposizione tra la delegazione italiana e Wilson risultò perciò a Parigi durissima, tanto che portò alla decisione di Orlando di ritirare momentaneamente la delegazione italiana dalla conferenza della pace nell’aprile del 1919. Dallo stallo, si poté uscire sola quando si affievolì il sostegno di Wilson agli jugoslavi. Tuttavia, l’Italia non poté ottenere a fine guerra il suo programma massimo, come sopra delineato, anche perché il governo Giolitti, con Sforza agli Affari Esteri, capì che si sarebbe dovuto arrivare a un compromesso con la Jugoslavia. Tale compromesso fu rappresentato dal Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, con cui l’Italia ottenne l’Istria, ma non Fiume, e la sola città di Zara in Dalmazia, dopo che già aveva rinunciato a Valona. In ogni caso, tutta questa vicenda fece però dell’Italia una nazione perennemente insoddisfatta nel dopoguerra, disposta a sposare il mito della “vittoria mutilata” e quindi propensa a spostarsi all’occorrenza nel campo revisionista, come si rivelerà con più nettezza alla fine degli anni ’20 con Mussolini.

La principale tra le potenze sconfitte, la Germania, accolse il Trattato di Versailles come un Diktat. Il fatto che essa aveva accettato l’armistizio dell’11 novembre 1918 sulla base del principio wilsoniano di una pace “senza vinti né vincitori”; il fatto che in fondo l’esercito tedesco deponeva le armi senza avere subito grosse sconfitte sul campo: tutto ciò faceva ritenere alla Germania che non fossero giuste le clausole imposte dal trattato di Versailles e volute soprattutto dalla Francia. La Germania, quindi, si riteneva autorizzata anche moralmente a resistere con ogni mezzo alla loro esecuzione. Particolarmente odiose per i tedeschi erano le clausole relative alla definizione della “colpa” tedesca per lo scoppio della guerra, alle riparazioni e alla perdita di territori abitati da tedeschi a est (Pomerania, Slesia, Sudeti, Danzica).

Il programma, tedesco, quindi, mostrò una straordinaria continuità di intenti dai governi di Weimar fino a quello di Hitler, essendo esso quello di fare in modo che il cosiddetto “sistema di Versailles” prima o poi crollasse. Naturalmente, Hitler mise poi in questo programma una virulenza, una spietatezza e uno stile aggressivo sconosciuto ai governanti di Weimar. Ma già questi ultimi avevano appunto fatto alcune mosse importanti in tal senso. Per esempio, per uscire dall’isolamento in cui l’aveva messa il sistema di Versailles, la Germania di Weimar aveva stipulato il Trattato di Rapallo del 16 aprile 1922 con l’Unione Sovietica, iniziando così una collaborazione con i sovietici che le permetteva di sperimentare sul suolo russo quelle armi che le erano vietate a norma del trattato di pace. Risultava così chiaro che il sistema di Versailles fosse minato alle fondamenta fin dal suo nascere, nonostante un relativo rasserenamento del clima nei rapporti franco-tedeschi che pure si sarebbe vissuto a metà degli anni ’20, con i Trattati di Locarno dell’ottobre 1925, il breve funzionamento del sistema delle riparazioni e la stipula del Patto Briand-Kellogg di rinuncia perpetua alla guerra del 1928.

La Russia usciva dalla guerra sconfitta militarmente e con il suo sistema politico profondamente trasformato dalla rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917. Essa aveva dovuto accettare la pace punitiva impostale dalla Germania a Brest Liotvsk, il 3 marzo 1918. Tale pace aveva privato quindi l’Unione Sovietica di gran parte del territorio dell’Ucraina e della Bielorussia, degli Stati Baltici e della Finlandia. Preoccupazione immediata dell’Unione Sovietica, tuttavia, non poteva essere quella di recuperare tali territori, bensì di concentrarsi a sconfiggere gli eserciti “bianchi”, anti-comunisti, che operavano all’interno dei suoi confini e consolidare così il “socialismo in un solo Paese”, secondo il programma di Lenin. D’altro canto, che non fosse possibile per essa esportare già nel primo dopoguerra la rivoluzione comunista in Europa, fu dimostrato dalla sfortunata guerra che dovette combattere contro la Polonia e che portò al Trattato di Riga del 12 marzo 1921, con cui di fatto l’Unione Sovietica doveva cedere ai polacchi, sostenuti dai francesi, i territori ucraini e bielorussi già persi a Brest Litovsk. A livello diplomatico ed economico, inoltre, l’Unione Sovietica fu tenuta isolata dalla vita europea attraverso la cosiddetta politica del “cordone sanitario”, propugnata soprattutto dalla Francia e volta a tenere lontana appunto l’”infezione” comunista dal cuore del continente. Il cordone sanitario cominciò a essere spezzato dall’Unione Sovietica dapprima col trattato di Rapallo con la Germania del 1922, al quale già abbiamo accennato, e poi con i riconoscimenti che cominciarono a pervenire allo Stato sovietico da parte delle grandi potenze a partire dal 1924. Tuttavia, il ricordo dei territori perduti, l’accerchiamento vissuto dopo il 1917, accompagnato dal timore che le potenze capitalistiche potessero appoggiare tutti i nemici interni ed esterni dell’Urss per farla crollare, crearono anche nei dirigenti sovietici quella propensione a rivedere, anche con la violenza, l’asseto di Versailles, propensione che avrebbe fatto dell’Urss un’alleata, se non sul piano militare, almeno a livello sostanziale politico, della Germania nel 1939, a seguito della stipulazione del Patto Ribentrop-Molotov, vera causa immediata dello scoppio del secondo conflitto mondiale.

Infine, anche il Giappone, altra potenza vincitrice, si concentrò durante la conferenza della pace ad ottenere per il dopoguerra vantaggi suoi propri esclusivi, che nulla avevano a che vedere con l’internazionalismo di stampo wilsoniano. Suoi grandi risultati furono così l’annessione, mascherata sotto la formula del mandato, degli arcipelaghi ex tedeschi nel Pacifico delle Marshall e delle Caroline; inoltre, esso ottenne il controllo della regione cinese dello Sahntung. Il Giappone si ergeva così realmente come la potenza egemone in Cina ed Estremo Oriente. Una momentanea convergenza tra Gran Bretagna e Stati Uniti, nel 1922, in occasione della conferenza di Washington, sembrava mettere un freno agli ambiziosi progetti asiatici del Giappone. Ma la Grande Depressione del 1929, il conseguente estraneamento degli Stati Uniti dagli affari mondiali, la debolezza mostrata dalla Società delle Nazioni e quindi dalla potenza navale inglese dopo la crisi della Manciuria del 1931, indicava al Giappone che la strada del revisionismo potesse essere quella giusta da percorrere, contribuendo così anch’esso al disastro della seconda guerra mondiale in maniera determinante.

L’eredità della Società delle Nazioni: l’ONU e la rinascita di una prospettiva universalistica del diritto internazionale
Il bilancio dell’esperienza della Società delle Nazioni, tuttavia, non può essere considerato come completamente negativo, soprattutto nell’ottica delle eredità lasciata da questa organizzazione. Tra gli aspetti positivi è doveroso ricordare gli interventi in crisi marginali in America Latina e, soprattutto, la promozione della Corte di giustizia dell’Aia, elementi che non riuscirono comunque a scongiurare il declino dell’organizzazione. Perciò, più che nella capacità di risolvere il problema generale della sicurezza, l’importanza della Società delle Nazioni va ricercata nel fatto che essa ponesse, con un rilievo senza precedenti, l’esigenza di affrontare il problema stesso in modo coerente e globale. Le cause per cui tale esigenza non si tradusse in una soluzione efficace vanno ricollegate alla persistenza degli interessi particolaristici rispetto alle visioni internazionalistiche. La politica di potenza pareva avere la meglio sulla politica di istituzionalizzazione.

Ma soprattutto l’eredità più importante che la Società delle Nazioni ci ha lasciato è data dall’essere stata la prima tappa di un processo di associazionismo universale che ha il suo centro pulsante nelle Nazioni Unite e le sue articolazioni non solo nelle agenzie specializzate ma anche nelle organizzazioni regionali, che, sia pure con dei limiti e degli errori, hanno garantito una tendenziale coesistenza pacifica tra gli Stati.

Durante lo svolgimento del secondo conflitto mondiale, dall’Alleanza angloamericana contro il nazifascismo, cui si era associata l’Unione Sovietica per autodifesa dopo l’attacco tedesco, emerse la visione di un nuovo ordine internazionale di tipo universalistico, basata sul principio della legalità internazionale e della eguaglianza sovrana degli Stati. Le linee fondanti di tale visione, suggellata da F.D. Roosevelt e W. Churchill nell’agosto 1941 nella Carta Atlantica, si articolavano sul divieto dell’uso della forza, la protezione e promozione dei diritti dell’uomo, la liberalizzazione degli scambi commerciali e la protezione degli investimenti stranieri.

Questa concezione di ordine internazionale, antitetica a quella nazifascista, rilanciava su scala mondiale il modello multilateralistico westfaliano, aggiornandolo con l’introduzione del divieto dell’uso della forza e con il proseguimento del faticoso tentativo, iniziato nel 1919 con la Società delle Nazioni, di istituzionalizzare una gestione sovranazionale della funzione di polizia internazionale. Questa stessa visione venne poi codificata nella Carta ONU nel 1945 dai suoi 51 Stati fondatori.

In un famoso articolo, sul Corriere della Sera, il 5 gennaio 1918, Luigi Einaudi si poneva la domanda: “La Società delle Nazioni è un ideale possibile?”. Domanda alla quale rispondeva che la pacifica coesistenza tra gli Stati “deve essere il frutto degli sforzi di uomini convinti che soltanto le cose impossibili riescono ed hanno fortuna; ma devono essere sforzi indirizzati non ad affermare maschere false di verità, ma ideali concreti, saldi, storicamente possibili”. Ebbene la nascita della Società delle Nazioni, la creazione delle Nazioni Unite, sia pure attraverso la necessaria cesura della organizzazione che la aveva preceduta e i 60 anni di pace globale che l’ONU ha garantito, anche se con limiti ed incertezze, mostra che l’ideale wilsoniano era concreto e saldo.


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