Europa

Il vero conflitto di Renzi è con Berlino e non con Bruxelles

Intervista EUnews
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Quando verrà in Italia, venerdì prossimo, il presidente dell’esecutivo europeo, Jean Claude Juncker dirà al presidente del Consiglio Matteo Renzi “che la Commissione ritiene la flessibilità un principio ispiratore dell’attuale Unione europea”. Le “posizioni francamente troppo rigide” sul rigore di bilancio, per il presidente della Sioi Franco Frattini, ex commissario europeo alla Giustizia, appartengono ad altri, “come il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble”. È dunque con Berlino e non con Bruxelles, a suo avviso, il vero conflitto da affrontare per l’inquilino di Palazzo Chigi. Anche riguardo alle proposte per l’Europa presentate lunedì, positive secondo l’ex ministro degli Esteri, il vero scoglio è la Germania che si oppone a “ogni misura di solidarietà” in campo finanziario. L’ex commissario lo spiega in una intervista in cui affronta anche il tema della Brexit e dei diversi gradi di integrazione in “un’Europa a cerchi concentrici”.

Presidente Frattini, il premier Matteo Renzi non perde occasione per attaccare la Commissione europea sulla flessibilità di bilancio. Sbaglia, come ritiene l’ex capo dell’esecutivo Mario Monti?
Ogni Paese ha ragione a sollevare questioni di rilevante interesse nazionale, se questo non è in contrasto con gli interessi dell’Ue. Sostenere la flessibilità non vuol dire frenare l’integrazione, ma soltanto attuare quei principi già scritti nei Trattati. Renzi sbaglia a dare l’impressione che la flessibilità non sia già prevista, che sia una cosa da introdurre, ma ha sicuramente ragione quando – a fronte di posizioni francamente troppo rigide, come quelle del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble – sostiene una visione che a mio avviso è più europea di quella della Germania. L’esempio ultimo, la proposta di porre un limite del 25% ai titoli di Stato nei portafogli delle banche è un dito nell’occhio all’Italia. Era fin troppo chiaro che dovessimo reagire.

Quindi il vero conflitto non è con Bruxelles ma con Berlino?
Certo. C’è una trazione tedesca che sotto certi punti di vista va indubbiamente corretta. Ho sentito il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, dire alla Plenaria di Strasburgo che bisogna contrastare, parole sue, la “stupida austerità”. Sono frasi che ricalcano esattamente quelle del governo italiano. Invece Schaeuble fa quel discorso sulle banche e si oppone radicalmente a qualsiasi tipo di intervento di solidarietà nel sistema bancario, dicendo che l’Unione bancaria non sarà completata (con il sistema europeo di garanzia sui depositi, ndr) finché non saranno introdotti questi limiti alle banche nazionali. È qualcosa che va oltre l’attuale politica della Commissione Juncker, che appunto non mi sembra di “stupida austerità”, ma di attenzione alla flessibilità. Anche le parole del commissario agli Affari economici, il francese Pierre Moscovici, sono tutte ispirate alla flessibilità e non a un rigore ‘teutonico’.

La visita di Juncker a Roma, venerdì prossimo, ripianerà i contrasti tra l’esecutivo italiano e quello comunitario?

La visita servirà a Juncker per dire al governo italiano che la Commissione ritiene la flessibilità un principio ispiratore dell’attuale Unione europea. Questo dovrebbe rassicurare il governo. Servirà poi al nostro esecutivo per dire alla Commissione che, se ritiene la flessibilità importante, deve comportarsi di conseguenza. Se l’Italia chiede uno 0,2% di flessibilità ulteriore, per gli oneri enormi sostenuti per rifugiati e migranti – problema affrontato in solitudine finché non è diventato comune all’Europa, quando si è aperta la rotta balcanica – riconoscere quello 0,2% non è un regalo ma il rimborso di un onere che l’Italia ha assunto nell’interesse dell’intera Europa.

Juncker vedrà anche il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. Trova strano che in agenda ci sia anche questo incontro non proprio istituzionale?
Mi sarei stupito del contrario. Juncker ha sempre avuto una grande attenzione al presidente Napolitano. La loro amicizia si è rafforzata quando l’ex capo dello Stato presiedeva la commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo. Napolitano è indubbiamente uno statista internazionale ma ha lavorato anche in modo operativo sull’Europa. Quello che ha fatto lì e quello che ha fatto dopo, da capo dello Stato, rendono assolutamente normale questo incontro.

Quindi, nonostante i richiami di Napolitano a Renzi, proprio sugli attacchi contro la Commissione, quella di Juncker è solo una visita d’amicizia e sbaglia chi vede altro?
Credo che il presidente Napolitano, a cui in fondo si deve la nascita del governo Renzi, non possa essere sospettato di inimicizia verso l’attuale esecutivo. Juncker non andrà a trovarlo per trovare argomenti contro Renzi, ma per ascoltare una voce talmente autorevole che merita di essere ascoltata. Sono convinto che Napolitano gli dirà le cose che ha sempre detto in pubblico e in privato, e cioè che le regole dell’Europa vanno rispettate tutte quante. La flessibilità è una, il rispetto dei limiti di bilancio è un’altra: vanno rispettate entrambe.

Ieri il governo italiano ha presentato un documento con le sue proposte per il futuro dell’Europa. Come le giudica?
La parte più importante di questo pacchetto del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, è quella in cui auspica un’accelerazione verso l’unione bancaria e gli ulteriori passi dell’Unione monetaria. Dopo quanto accadde quando in Italia c’era il governo Monti e poi quello di Enrico Letta, siamo rimasti un po’ in mezzo al guado. Abbiamo affidato alla indubbia capacità del presidente della Bce, Mario Draghi, la decisione di adottare “whatever it takes”, tutto ciò che occorre, per frenare gli attacchi speculativi. Ma non si può sempre fare carico alla Banca centrale europea, sempre al quantitative easing, di adottare misure strutturali. Quindi è molto giusta quella parte organica del pacchetto Padoan in cui si dice che non possiamo rimanere bloccati a un’Unione bancaria annunciata e non completata, a un’Unione monetaria annunciata e poi affidata solo alle mani di Draghi. Mi preoccupa piuttosto la risposta tedesca. Perché quell’impegno a uscire dal guado era stato preso. Nessuno, prima, aveva posto questa nuova condizione del tetto al 25% per i Bond nella pancia delle banche nazionali. Se mettiamo sempre nuove precondizioni, c’è da chiedersi chi sia davvero a voler frenare l’integrazione europea.

Nel documento italiano si parla anche del ministro delle Finanze dell’Eurozona, una proposta tedesca.
A me piace quella proposta, ma adesso i tedeschi ne rifiutano la paternità. Dicono che ci può essere un ministro delle Finanze dell’Eurozona a condizione che vi sia un sistema, sostiene Schaeuble, accentrato e rigoroso. Questo, tradotto, vuol dire soltanto austerità. Se mettiamo come precondizione che ogni misura di solidarietà tra Paesi, in questo campo, va esclusa e ognuno si tiene i problemi suoi, questo ministro delle Finanze europeo è solo un regolatore del traffico e non un attore politico, come io vorrei e credo anche il governo auspichi.

La proposta italiana è di dotare questa figura di risorse proprie per perseguire politiche di crescita e occupazione.
Se non diamo a questo ministro la possibilità di essere un attore con i soldi di tutti, e continuiamo a dire che c’è il ministro delle finanze dell’Eurozona ma ognuno pensa al proprio bilancio con soldi del proprio bilancio, diventa una figura vuota. Noi proponemmo gli eurobond. Non li chiameremo eurobond, ma qualche iniziativa a vantaggio di tutti la dobbiamo adottare. Se la Germania dice no perché vuol dire che il contribuente tedesco concorre a un progetto che serve anche al contribuente italiano, questa è la fine della solidarietà europea. Dunque, molto bene la proposta Padoan, se non la circondiamo di precondizioni a ogni virgola.

Un altro punto che richiama la solidarietà è la proposta di un sussidio di disoccupazione europeo. Anche qui ci sono ostacoli?
Questa è forse la proposta più difficile da realizzare. La ragione è che sempre, anche nel Trattato di Lisbona, è stato detto che il tema del welfare e del lavoro è nazionale. Mai è stato accettato il principio che vi sia normativa europea sul welfare, perché oggi parliamo di sussidio di disoccupazione pagato da tutti a vantaggio di alcuni, domani si dirà che l’Europa deve stabilire anche il livello minimo di assistenza sanitaria negli ospedali, poi si andrà a stabilire qual è il livello minimo accettabile di pensione sociale. Piaccia o no, sono elementi sui quali esistono differenze enormi tra Paese e Paese. Quando si va alla materia del welfare e del lavoro ci si scontra con una tradizione che l’Europa ha sempre salvaguardato: quella della competenza nazionale. Io sono un federalista per natura e quindi mi farebbe piacere, ma devo ammettere che è una delle cose più difficili da attuare.

La questione del welfare è stata la più spinosa anche nel negoziato con il Regno Unito. Come giudica l’accordo raggiunto dal Consiglio europeo per evitare la Brexit?
Ritengo sia positivo perché abbiamo evitato il peggio: vedere il premier David Cameron fare campagna in favore della Brexit insieme con il sindaco di Londra Boris Johnson. Questo sarebbe stato per l’Europa un costo maggiore rispetto al prezzo che dovremo pagare per quel pacchetto di concessioni che abbiamo riconosciuto. Credo che ci sia una tendenza, difficilmente evitabile, per un’Europa a cerchi concentrici. Vi sono Paesi, quelli dell’Eurozona anzitutto, che dovranno lavorare per una integrazione ancora più forte, e altri – penso al Regno unito ma anche alla Polonia con il nuovo governo – che di questo non vogliono sentire parlare. O diciamo la parola fine all’Europa per com’è, e sarebbe una catastrofe, oppure dobbiamo accettare il compromesso di dare più flessibilità ad alcuni Paesi, ma in cambio mantenerli nel sistema del mercato unico.

Molti hanno denunciato il rischio che il negoziato con il Regno unito apra la porta a future rivendicazioni da parte di altri Paesi, facendo arretrare l’integrazione. È un pericolo concreto?
Il rischio c’è. Nuove rivendicazioni di altri Paesi potranno essere presentate. Però, qua si gioca anche con la forza di chi fa la richiesta. Non voglio fare nomi, ma non vedo un Paese forte come il Regno unito – e con leader capaci come è stato Cameron – in grado oggi di fare tali richieste. Con tutto il rispetto per ognuno dei 28, ma una cosa è che una riforma profonda la chieda l’Inghilterra, una cosa è se la chiede un altro Paese, escludendo quelli fondatori che non credo porranno simili questioni.

Il premier Renzi ritiene che sarebbero i britannici a rimetterci di più da un’eventuale Brexit. Qual è il suo giudizio?
Ci perderemmo egualmente tutti quanti. Sicuramente i britannici perderebbero moltissimo se il 23 giugno votassero per la Brexit. In primo luogo il ruolo della City di Londra, che diventerebbe una normale piazza finanziaria come le altre, mentre oggi è forse il centro della finanza internazionale. Poi, perderebbero moltissimo perché non sono un Paese manifatturiero. Importano ed esportano, sono un Paese distributore. Se venissero circondati dalle dogane perché sono fuori dal mercato unico, è facilissimo immaginare quale danno economico ne avrebbero. Perderebbero anche in termini di sicurezza, perché è vero che sono un importante Paese della Nato, ma l’Europa si difende se sta unita. Se la Gran Bretagna ne stesse fuori, non ci sarebbe lo stesso livello di solidarietà interna. In casi come quelli, gravissimi, di attacchi terroristici o di flussi migratori incontrollati, il Regno unito sarebbe meno protetto, non più protetto. Penso che almeno queste tre buone ragioni siano molto chiare agli elettori inglesi.

Nella sua veste di consigliere della Serbia per l’ingresso nell’Ue, che ricadute può avere su quel percorso la recente richiesta di adesione della Bosnia-Herzegovina, e come è stata presa la notizia a Belgrado?
La Bosnia è oggettivamente, nei Balcani, il Paese che presenta ancora le maggiori problematicità. Per dirne una, la riforma costituzionale attesa ormai da lunghissimi anni non è stata ancora completata. La Bosnia deve fare ancora dei grandissimi passi avanti per poter essere qualificabile come Paese candidato all’ingresso nell’Unione europea. Se vi sarà buona volontà da parte bosniaca, uno dei passi importanti dovrà essere la normalizzazione vera dei rapporti con i vicini, anzitutto con la Serbia, perché quello che è accaduto a Srebrenica, dove il premier Serbo, Alexsander Vucic, fu aggredito quando andò semplicemente a rendere omaggio alle vittime, mostra che anche culturalmente ci sono ancora tanti passi avanti da fare.


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