di Gabriele Carrer
Conte deve trovare unità in Parlamento e il presidente Mattarella potrebbe convocare un Consiglio supremo di Difesa: serve una linea condivisa. L’Italia vanta un credito verso l’Iran: può tornarci utile mediare per Trump e ritrovare la sua fiducia dopo il flop libico. Conversazione con Franco Frattini, due volte ministro degli Esteri, ex commissario europeo, oggi presidente della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (Sioi) e presidente di sezione del Consiglio di Stato
L’Italia può avere un ruolo nella mediazione tra Stati Uniti e Iran ma serve un passaggio parlamentare e un Consiglio suprema di Difesa che ci facciano esprimere con un’unica voce. La mancata telefonata del presidente Donald Trump al premier Giuseppe Conte dopo l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani? Paghiamo la delusione degli Stati Uniti causata dalla nostra incapacità di assumere la leadership in Libia. Sul ruolo dell’Italia e dell’Unione europea in questa crisi tra Stati Uniti e Iran abbiamo chiesto l’opinione di Franco Frattini, due volte ministro degli Esteri (una durante la guerra bushiana in Iraq), ex commissario europeo, oggi presidente della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (Sioi) e presidente di sezione del Consiglio di Stato.
Che cosa dovrebbe fare il governo in questo momento?
In primo luogo promuovere attraverso un dibattito parlamentare un’unità di tutto l’arco affinché l’Italia esprima con una sola voce. Abbiamo sentito quella di Matteo Salvini, quella di Giorgia Meloni, quella di Nicola Zingaretti, non si capisce quale sia la posizione dei 5 Stelle. Da un lato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio fa osservazioni di buon senso, dall’altro vedo che un altro dei leader del Movimento, Alessandro Di Battista, sta partendo per Teheran – e forse non è il momento migliore. Se l’Italia trovasse una posizione convergente, avrebbe la forza di chiedere che un consiglio dei ministri degli Esteri, se non dei capi di Stato dell’Unione europea cercasse di avvicinare le posizioni tra i Paesi membri, oggi molto lontane. Il che rende l’Europa irrilevante. Almeno finora.
Forse i continui appelli a una missione europea, pensiamo a quelli di Massimo D’Alema e del premier Giuseppe Conte, rivelano una mancanza di proposte.
Certo. Rivelano che ogni Paese amerebbe moltissimo scaricare a qualcun altro la questione, in questo caso all’Unione europea. C’è un piccolo particolare: l’Unione europea non c’è. Osservazioni di ordinario buon senso come quella di Joseph Borrell, Alto rappresentante Ue, si scontrano con l’evidenza che per essere mediatore devi essere credibile con entrambe le parti. Ma con l’Iran l’Europa ha perso credibilità quando non ha difeso l’accordo nucleare dal presidente statunitense Donald Trump. E l’ha persa anche con gli Stati Uniti, come detto con grande chiarezza dal segretario di Stato americano Mike Pompeo.
Ogni Paese Ue si muove dimenticando l’unità europea.
Non è sfuggito a nessuno che le posizioni più nette, come al solito, le hanno prese Francia e Germania. Il presidente francese Macron ha diffuso il comunicato congiunto di condanna assieme all’omologo russo Vladimir Putin – come se la Francia non avesse nulla a che fare con la Nato. Francia e Germania assieme hanno triangolato con il ministro degli Esteri cinese.
Che cosa significa?
Tutte queste cose fanno capire che c’è un attivismo forte di Macron, che vuole riposizionare il suo Paese come punto centrale nel Medio Oriente dopo aver perso il ruolo storico in Libano e dintorni. Ma l’Europa in quanto tale è assolutamente silente.
Che fare quindi, a livello europeo?
Prima di parlare di una missione europea occorre che ci sia l’Europa. Penso serve una discussione politica in cui ogni Paese dica con chiarezza che cosa fare. Qui tutti dicono di volere una de-escalation. Sì, ma come? In questo momento non vedo l’Iran lanciare una risposta di guerra. E non soltanto perché l’ayatollah Ali Khamenei al momento giusto ha sempre fermato le azioni di guerra vere e proprie. Ma soprattutto perché l’Iran non è circondato da amici, pensiamo a Paesi come Arabia Saudita, Egitto, Israele e Turchia. Il mio consiglio è evitare di far sentire l’Iran talmente in un angolo da incoraggiare un scatto rabbioso del leone ferito. Il tutto senza far perdere ovviamente la faccia gli Stati Uniti.
Come?
Per esempio, riparlare dell’accordo nucleare disdettato da Trump e abbandonato dall’Iran. Inoltre, serve dire con chiarezza con il contesto regionale deve essere rinegoziato totalmente per evitare che l’Iran, come faceva con Qassem Soleimani, controlli un pezzo della Siria e tutto il Libano.
Washington non ha telefonato a Roma né prima né dopo l’uccisione del generale. Uno schiaffo piuttosto pesante per il premier Conte.
Lo è. Gli Stati Uniti si aspettavano qualcos’altro dall’Italia. Credo sia uno schiaffo dovuto non tanto a questa faccenda, visto che siamo del tutto marginali e che, come tutti sanno, l’Italia si è allineata all’Europa sul nucleare – ha limitato gli scambi con l’Iran quando era il momento di farlo, tanto che Trump ci aveva addirittura graziato per sei mesi dall’embargo. E non l’ha fatto per simpatia verso l’Iran ma perché tutto sommato avere un piccolo ponte, qualcuno che con Teheran ci parla ed è seriamente alleato occidentale, a Trump non dispiace.
Da dove arriva la delusione allora?
Dalla Libia. Gli americani ci rimproverano di non aver preso finalmente – e ce lo chiedono da molti e molti mesi – una leadership in Libia che evitasse ciò che è accaduto. Siccome in politica estera è come in fisica che quando gli spazi sono lasciati vuoti qualcuno li occupa, nel disordine generale Russia e Turchia sono entrate in campo e si spartiranno le sfere di influenza. Come hanno fatto per la Siria, peraltro.
Ce lo chiedono dalla Conferenza di Palermo di fine 2018.
Proprio così. Noi abbiamo un giorno invitato Khalifa Haftar, il giorno dopo allisciato Fayez Al Serraj. E non ci siamo coordinati con i russi come avremmo dovuto. Con Russia e Turchia abbiamo rapporti che certo gli Stati Uniti non hanno e avremmo potuto giocare benissimo questo ruolo anche nell’interesse americano. Invece, si è visto che la Francia ha fatto quel che ha voluto – pensiamo al sostegno sotterraneo ad Haftar. Ciò ha mostrato all’America che su questo dossier, che è per l’Italia di interesse nazionale prioritario, siamo stati in ritardo. Non riguarda il ministro Di Maio ma certamente l’Italia in quanto tale.
A sentirla la questione sembra davvero essere davvero grave e superare il tema Iran.
Come possono gli Stati Uniti contare su una presenza importante dell’Italia su altri dossier se neppure in Libia c’è stata? Ecco perché è urgente che il presidente del Consiglio cerchi di trovare un’unità in Parlamento, per andare poi con due o tre idee concrete a dire all’Europa “qui c’è una proposta italiana”. Abbiamo visto i tentativi francese, franco-tedesco, austriaco per un vertice Usa-Iran a Vienna e perfino quello di coinvolgere la Svizzera. Iniziative spot, ma non si è vista la proposta. Credo che su questo l’Italia abbia ancora un margine per portare la sua idea. Anche perché noi italiani abbiamo dei crediti agli occhi degli iraniani: basti pensare che fummo noi a restaurare dopo il terremoto la cittadella sacra di Qom, quella dove ora adesso è stata issata una bandiera rossa. Esistono rapporti che permetterebbero all’Italia di fare una proposta credibile. Ma non basta dire “facciamo la de-escalation”, serve spiegare come.
Sarebbe sufficiente un passaggio parlamentare?
Valuterei – questa non è materia del Parlamento ma del presidente della Repubblica – se non sia l’occasione di un Consiglio supremo di Difesa. Non è immaginabile che una mattina si svegli il ministro della Difesa Lorenzo Guerini – che ha fatto una cosa che condivido come sospendere l’addestramento italiano – e quella dopo il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che va adesso in Egitto. Francamente vedrei più un dibattito parlamentare, con la consacrazione di un Consiglio supremo di Difesa per dire “ecco, questa è l’Italia”. E allora anche il presidente del Consiglio avrebbe più forza in Europa.
Che ruolo possiamo avere?
Serve ricordare all’Europa che siamo tra i pochi che possono parlare con l’Iran senza che ci tirino addosso un missile: con l’Italia non c’è che una diffidenza per l’allineamento alla posizione europea, quella che ha lasciato cadere quell’accordo nucleare per obbedire alle richieste americane. Ma di più non c’è. C’è più molta irritazione verso altri Paesi europei. E agli americani faremmo anche un bel favore se la proposta italiana riducesse la tensione facendo riaprire il dialogo agli iraniani sul nucleare. Tuttavia, leggendo i giornali vedo che le divisioni tra le forze politiche sono ancora forti sul decreto Milleproroghe, sulla revoca ad Autostrade ma di questo tema, che è materia di interesse nazionale, chi se ne occupa?
Che cosa cambia con l’uscita dell’Iran dall’accordo Jcpoa? Quest’uscita era del tutto prevedibile perché in realtà, fino a oggi, l’Iran si era ritenuto vincolato politicamente all’accordo nonostante la disdetta di Trump. Non è una conseguenza legale quindi ma politica: gli iraniani hanno usato una condizione, cioè l’essere quell’accordo disdettato dagli Stati Uniti, aggiunta alla vicenda politica grave di queste ore per riprendere ad arricchire l’uranio.
Che cosa significa questa uscita dal patto? L’Iran avrà presto la bomba atomica?
Non significa che domani l’Iran avrà la bomba atomica ma che stiamo andando verso una fase devastante di proliferazione nucleare nel Grande Medio Oriente, in cui quantomeno Iran, Arabia Saudita e Israele saranno in grado di avere deterrenza nucleare. Sarà quella dell’epoca della Guerra fredda in cui si diceva “vogliamo l’arma atomica per non doverla usare mai” oppure no? Questo non possiamo dirlo adesso. Ma la scelta dell’Iran apre a conseguenze di medio termine estremamente preoccupanti. Mi chiedo se i consiglieri del presidente Trump avessero pensato a questa ripercussione.
L’uscita dall’accordo nucleare può essere intesa come la disponibilità da parte di Teheran a riaprire i negoziati?
È una carta da cogliere. In Iran c’è sempre stato il partito della pace, di cui è esponente anche Khamenei che sa bene che nonostante oggi non se ne parli più le manifestazioni di piazza, con le sanzioni che pesano e la gente che si impoverisce, restano. Soleimani, che era il capo del partito della guerra, no: aveva fatto dell’Iran un Paese sempre in conflitto per amministrare in questo modo il bilancio. Ora questo non c’è più. Quindi la mossa di uscire dall’accordo nucleare non necessariamente significa che l’raia avrà l’arma atomica domani né tantomeno che sarà pronto a usarla. Ecco perché proprio questo passo potrebbe riaprire un tentativo negoziale. Uso il termine tentativo perché la riuscita non è affatto scontata.
6 gennaio 2020