Frattini: “Non siamo più vulnerabili, siamo diversamente vulnerabili”Presidente, dopo 15 anni dall’attacco alle Torri Gemelle, secondo lei la comunità internazionale è ancora vulnerabile alle nuove minacce terroristiche? La comunità internazionale è sicuramente vulnerabile perché le minacce cambiano, diventano più sofisticate, si evolvono, e quindi la questione non è l’emergenza del singolo attacco, ma come la comunità internazionale reagisce attraverso la prevenzione e la reazione rapida. Se noi ci limitiamo a reagire, aspettando il prossimo attacco terroristico, saremo sempre in ritardo rispetto ai terroristi. Quindi non siamo più vulnerabili, siamo diversamente vulnerabili perché i terroristi si organizzano.
Nel 2005, dopo l’attentato a Londra, in qualità di vicepresidente della Commissione Europea, lei propose una maggiore collaborazione tra gli Stati membri per migliorare la sicurezza a livello europeo appunto. Sono stati compiuti progressi da allora o reputa che sia rimasto tutto fermo? E in tal caso, qual è l’ostacolo effettivo ad una maggiore cooperazione? Purtroppo anche allora si assunse il solito atteggiamento: ci furono gli attacchi terroristici, prima a Madrid nel 2004, poi a Londra nel 2005, e chiaramente si disse «corriamo ai ripari». Io proposi un’iniziativa strutturale, non emergenziale, sviluppata in tre punti.
Innanzitutto feci presente la necessità di una normativa che permettesse la tracciatura dei telefoni cellulari che i terroristi potenzialmente usano. In questo modo si poteva in qualche modo tracciare i loro spostamenti. Grazie a questo meccanismo, ad esempio, noi riuscimmo a prendere uno dei terroristi responsabili degli attacchi di Londra, che si trovava poco tempo dopo a Roma, dietro la stazione Termini, in un internet caffè.
In secondo luogo riconobbi la necessità di scambiare le informazioni tra gli Stati membri. È chiaro che non ci sarà mai un servizio segreto europeo, ma abbiamo tuttavia ottenuto la creazione di un tavolo di coordinamento permanente chiamato SitCen (Situation Center), che ha sede a Bruxelles, dove ogni Paese membro ha un rappresentante del proprio servizio di intelligence, e che fa il punto della situazione sulle crisi all’ordine del giorno.
Infine, mi posi il problema del coordinamento tra le unità antiterrorismo delle polizie nazionali, e proposi un altro coordinamento permanente. Per ogni Paese, cioè, le unità antiterrorismo si riuniscono tutte intorno allo stesso tavolo. Per l’Italia, ad esempio, finché io ero in carica, la collaborazione avveniva tra i Ros per i Carabinieri e lo Sco per la Polizia di Stato. Questo che cosa voleva dire e che cosa vuol dire tutt’ora? Significa che è assolutamente necessario che a livello europeo non ci sia più quella “gelosia” istituzionale per cui non si condividono informazioni riservate con gli altri Paesi. Tanto più che oggi il terrorista che vuole colpire l’Italia passa probabilmente attraverso il Belgio e attraverso la Germania, specialmente perché con lo spazio Schengen non ci sono limiti alla libera circolazione. È evidente come lo scambio di informazioni e la cooperazione siano essenziali. Io ho lasciato Bruxelles nel gennaio del 2008, e francamente mi sembra che questi istituti siano stati un po’ congelati, ma siccome esistono, bisogna ravvivarli rapidamente.
Massolo: “Eravamo abituati a considerare una minaccia asimmetrica, adesso il terrorismo addirittura produce petrolio”
Ambasciatore, partiamo dal tema dell’incontro di oggi: “Terrorismo, una minaccia nuova?”. In base a cosa quelle odierne possono essere definite nuove minacce? E quali sono le principali differenze rispetto al passato? Il punto è che sono saltati tutti gli schemi. Noi eravamo abituati a categorizzare: homegrowns, foreign fighters, ma adesso è tutto più difficile. Eravamo abituati a considerare una minaccia asimmetrica, mentre adesso il terrorismo si dota di strutture statali e addirittura produce petrolio. Eravamo abituati a minacce che venivano dall’esterno, mentre adesso i fatti francesi hanno dimostrato che tutto sommato la minaccia spesso viene dall’interno, da chi meno ce lo aspettiamo. Eravamo abituati ad avere organizzazioni di fronte, mentre invece adesso abbiamo delle microcellule, spesso basate su rapporti parentali o su rapporti addirittura di convivenza, quindi molto difficilmente detectabili. Mi sembra che questo basti a definire qualche novità.
Come lei stesso ha fatto più volte presente, il web è la nuova sede di radicalizzazione ideologica, indottrinamento ed anche arruolamento nelle cause terroristiche. Quali potrebbero essere misure concrete volte ad evitare o perlomeno controllare maggiormente il fenomeno del cyberterrorismo?Partiamo dal presupposto che il cyberterrorismo è uno spin-off della globalizzazione: una volta che abbiamo abolito ogni frontiera spazio-temporale, tutto accade contemporaneamente, nello stesso momento, e questo è un fatto bellissimo da un punto di vista, ma può essere minaccioso da un’altra prospettiva. Che fare quindi? Essere molto vigili; avere un monitoraggio costante del web e soprattutto del deep web; mobilitare le coscienze e le persone perché vengano segnalati fatti che non sono del tutto conformi alle normali aspettative.
I recenti attentati di Parigi hanno evidentemente scosso la comunità internazionale. Secondo lei cosa non ha funzionato in Francia, e quindi in Europa? È difficile dire cosa non abbia funzionato, come dicevo, siamo difronte a una minaccia nuova, siamo difronte a una pluralità di obiettivi e una pluralità di potenziali attentatori, quindi io non metterei l’accento sul non funzionamento, ma mi concentrerei piuttosto sulla necessità di serrare le maglie della prevenzione e di lavorare tutti, tutta la società civile, per vincere questa nuova piaga.