Intervista

Il Colle rompe il silenzio contro l’accerchiamento

Antonella Rampino per La Stampa
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Sembrava tutto tranquillo. La sera di martedì, quando ad arte i falchi del Pdl avevano fatto filtrare che stava per scoppiare una bomba, «Panorama ha le intercettazioni di Napolitano e le pubblica domani», al Quirinale rifiutavano qualsiasi commento. Teneva ancora la linea, comunicata dal Presidente ad alcuni interlocutori di primissimo piano, in chiusura della recente polemica che ha visto sciabolare Gustavo Zagrebelsky ed Eugenio Scalfari, di «non dire più una parola». Come del resto Napolitano avrebbe voluto fare sin da quell’ormai lontano 16 luglio, quando annunciò per decreto il ricorso alla Corte Costituzionale sulle «conversazioni captate» in possesso della Procura di Palermo. «Non dirò più una parola», avverti allora, e ci volle il decesso del suo consigliere Loris D’Ambrosio per scatenare, con il dolore, tutto il peso della sua ira. 

Ieri, il no comment non ha più retto . Bastava vedere il «Giornale» e «Libero» che rilanciavano le «ricostruzioni» e le «ipotesi» del settimanale Panorama come fossero, invece, fatti. Come se avessero le carte delle intercettazioni, carte che non esistono perché la procura di Palermo non le ha mai nemmeno sbobinate, proprio come ulteriore precauzione. E «Il Fatto» che, pur consapevole che si trattasse di «un nulla» – come commentava a caldo Marco Travaglio, «magari avessimo le carte, le pubblicheremmo ovviamente subito» ci ha detto martedì sera al telefono – rilanciava alla grande opinioni e giudizi su magistrati e politici che il Presidente potrebbe aver espresso al telefono. 
Come il mostro virgiliano dotato di un’infinità di orecchie e bocche per ascoltare e ripetere ogni voce e falsità, la Fama diventava realtà, e le ipotesi si mascheravano da verità. La mattinata presidenziale è così trascorsa in numerose telefonate. Ira nell’ira, per le richieste di Di Pietro, «Napolitano riveli al popolo le sue telefonate». Ma come – ragionava il Presidente – si crede forse che io registri le mie conversazioni? Si immagina che le carte di cui vorrei la distruzione siano nella disponibilità dell’intercettato? E terrei io intercettazioni su cui ho correttamente chiesto un pronunciamento alla Corte Costituzionale? Il Presidente aveva deciso di reagire, di rompere la consegna del silenzio, avendo individuato bene che «spacciare come veritiere alcune presunte conversazioni intercettate» era un saldo tassello di una «torbida manovra destabilizzante». 

Ai suoi numerosi interlocutori, che si sono poi tutti affrettati a difendere l’istituzione, il Presidente è sembrato più adirato che avvilito. Un’ira fredda di fronte ad attacchi che durano da mesi. L’analisi di Giorgio Napolitano è antica, non è certo scaturita oggi. Il «nuovo apice» della campagna orchestrata per colpire il Quirinale, demiurgo della più grave crisi politica della storia repubblicana, viene dagli ambienti di sempre. Ambienti che hanno corroso il discorso pubblico e la vita stessa delle istituzioni saldando gli inganni della demagogia carismatica di destra con la disconnessione dalle istituzioni di una certa «sinistra» che si è spinta fino all’antipolitica. Il primo allarme di Napolitano in materia data al suo discorso di Capodanno del 2006, e lo ha ripetuto infinite volte da allora, accendendo i toni tanto più si infuocava la condizione. Dunque, dagli albori del settennato all’allarme irato di ieri. Quanto alla tempistica per attaccare l’ultima salda istituzione di garanzia nel Paese, è evidente a ognuno che non è casuale. Per le «sinistre» populiste tenere sotto scacco il Quirinale sarebbe come condizionare il governo Monti. I falchi del Pdl adunati attorno alle gazzette berlusconiane, oltre a una legge-bavaglio, vorrebbero poter tenere il Quirinale sulla graticola e condizionarlo affinché non sia lui, in caso di elezioni anticipate a febbraio, a dare l’incarico al prossimo presidente del Consiglio, come invece forse non dispiacerebbe a Berlusconi. Per questo, è stato necessario che Napolitano lo dicesse chiaro. «Non sono ricattabile». Non ci sto.


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