Intervista a Corriere della Sera-Sette di Massimo Gaggi
Per anni noi europei abbiamo criticato George Bush per il suo unilateralismo. Senza renderci conto che lui produceva sicurezza che noi, tra una protesta e l’altra, tranquillamente consumavamo. Poi è arrivato Barack Obama, assai apprezzato da tutti per il suo multilateralismo: un atteggiamento più aperto che, però ci ha messo in crisi.
Abbiamo scoperto che in Europa il re è nudo. Sulla Libia, per esempio, il presidente americano ci ha chiamato a essere protagonisti: un modello di condivisione che d’ora in poi verrà applicato in molti scacchieri. Uno “shock” per la Ue, priva di unità politica, senza una leadership e con poche risorse da spendere».
Con la crisi del debito pubblico greco che ha effetti devastanti su tutta l’eurozona, la vulnerabilità finanziaria degli altri Paesi mediterranei – dall’Italia alla Spagna – e le banche che ormai traballano anche in Francia e Germania, l’Europa monetaria fa tremare il mondo. Ma a New York – dove ha trascorso un’intera settimana per partecipare ai lavori dell’Assemblea generale dell’Onu, ai vertici sulla Libia e il Medio Oriente e a incontri come quelli per il coordinamento dei sistemi antiterrorismo e la lotta alla pirateria – il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini appare preoccupato soprattutto per il pessimo stato di salute dell’Europa politica. Toccato con mano, qui a New York, quando i Paesi Ue si sono presentati in ordine sparso sulla questione israelo-palestinese.
Dal debito pubblico alla tenuta del sistema bancario, alle politiche per il Medio Oriente e l’immigrazione, la prospera Europa – culla della cultura e delle civiltà – sembra diventare un fattore mondiale di vulnerabilità. «È un’evoluzione negativa del processo di integrazione che ho visto svilupparsi sotto i miei occhi negli ultimi nove anni nei quali sono stato prima ministro degli Esteri, poi vicepresidente della Commissione europea, poi di nuovo alla Farnesina», racconta Frattini in una splendida alba di sole nell’ufficio dell’ambasciatore Ragaglini, nella nuova sede della rappresentanza italiana all’Onu, in cima a un grattacielo che domina la parte meridionale di Manhattan. Siamo partiti con una visione euro-entusiasta, lontana dalla realtà istituzionale e politica che avevamo davanti. Poi, dopo le docce gelate dei referendum in Francia e Olanda, ci siamo aggrappati al trattato di Lisbona, l’unico compromesso possibile sperando di farne un primo passo verso la costruzione dell’Europa politica. Su diversi tavoli, come quello dell’armonizzazione dei sistemi giudiziari, l’innovazione di Lisbona ha funzionato, ha consentito progressi sostanziali. Ma alle prime prove difficili quella costruzione si è rivelata troppo fragile. Pensi alla Palestina: se arriveremo a un voto della Ue in ordine sparso certificheremo davanti al mondo la nostra irrilevanza in una questione vitale. Ma prima c’è stato il dramma dei profughi fuggiti dal Nord Africa durante le rivolte della “primavera araba”. Abbiamo visto cose gravissime: la Francia che chiude le frontiere. La Danimarca che le chiude senza che sia soggetta ad alcuna pressione migratoria. La Commissione “bacchettata” da Francia e Germania per il suo richiamo al rispetto del trattato di Schengen. Fino all’attuale, gravissima crisi del debito pubblico».
E le responsabilità dell’Italia? «L’Italia ha sostenuto la posizione giusta, anche se non è quella che ha prevalso. Abbiamo chiesto un vero governo comune europeo della politica estera, dell’economia e della difesa. Niente di sconosciuto, sono le idee di De Gasperi e Spinelli. In un mondo di grandi blocchi perfino la Ue oggi rischia di essere un’entità troppo piccola. Invece hanno prevalso le spinte nazionali. Volevamo un vero ministro degli Esteri europeo. Siamo stati sconfitti e oggi ne paghiamo tutti le conseguenze. Ma è ancora più grave quello che sta accadendo nell’Europa economica coi suoi Paesi più grandi, padri fondatori della Comunità, nei quali va diffondendosi l’idea che dall’euro si possa uscire. Sarebbe il disastro: il cancelliere tedesco lo ha capito, altri, nel suo Paese, no. Se cede un Paese dell’Unione, anche un Paese periferico, le scosse sismiche saranno devastanti per tutti. La Francia lo ha già visto con la crisi delle sue banche. Presto se ne accorgerà anche la Germania».
Neanche una luce all’orizzonte? «Be’, sulla difesa comune ci stiamo rimboccando le maniche. L’Italia ha preso l’iniziativa cercando di coagulare intorno al progetto di difesa Ue un gruppo importante di Paesi – Francia, Germania, Polonia e Spagna – disposti a sviluppare un modello di cooperazione militare rafforzata. Un tentativo di rispondere alle nuove sfide, compresa quella che ci hanno lanciato gli Stati Uniti. Un modo per mettere più Europa in un asse euro-atlantico da rafforzare».
Anche perché l’America guarda ormai più al Pacifico e alla Cina che alla collaborazione coi vecchi alleati del Novecento. «Il mondo cambia in fretta e noi dobbiamo muoverci altrettanto rapidamente. Non c’è solo il mutamento degli equilibri verso l’Asia. C’è anche, per esempio il nuovo prestigio della Russia con i vecchi attriti Washington-Mosca superati grazie al “reset” delle relazioni, mentre il presidente Medvedev propone una strategia globale della sicurezza, da Vancouver a Vladivostok».
L’America guarda meno all’Europa, ma negli ultimi anni ha osservato con particolare attenzione l’Italia soprattutto per la sua politica energetica:Libia, Iran e un’apertura, giudicata eccessiva, alla Russia. Problemi risolti o che verranno rinfocolati dalla partita per petrolio e gas nella Libia del dopo Gheddafi? Oggi il governo italiano non gode di grande prestigio internazionale. E l’atteggiamento verso Tripoli a inizio crisi è stato molto criticato. «In Libia siamo stati fin dall’inizio a fianco del nuovo governo provvisorio. L’Italia è il primo Paese che gli ha dato il riconoscimento diplomatico. Prima della rivoluzione l’Eni copriva un terzo della produzione energetica libica. Non c’è motivo per cui non si debba tornare a quella situazione. I nuovi governanti assicurano che gli accordi verranno rispettati. Del resto sono investimenti già fatti: gli impianti sono lì, presto verranno riattivati».
E la Russia? «Negli anni scorsi sono stato personalmente testimone delle inquietudini degli Stati Uniti, a partire dalle preoccupazioni del Dipartimento di Stato per l’attivismo dell’Eni, dalla Libia alla questione dei gasdotti europei, South Stream e Nabucco. L’ambasciatore Morningstar. responsabile della politica energetica Usa, venne due volte a Roma. In uno dei colloqui gli proposi un incontro senza limiti di confidenzialità con l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni. Da allora tra i due è iniziato un rapporto molto proficuo basato sulla “full disclosure” delle attività Eni. È un tema che poi ho affrontato anche con Hillary Clinton al Dipartimento di Stato. Insieme abbiamo costituito il tavolo di lavoro Italia-Usa sulla sicurezza energetica. Con Scaroni che ormai illustra periodicamente a Washington le scelte del’Eni e la nuova fase dei rapporti Usa-Russia, posso dire che quelle difficoltà sono superate».