Dall’Ucraina, alla Siria, alla Libia, fino alla Somalia, i conflitti che insanguinano la scena internazionale hanno tutti in comune “la distruzione dell’essere umano come obiettivo”. L’analisi di Franco Frattini, Presidente della Sioi (Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale), già Ministro degli Affari Esteri dal 2008 al 2011.
di Laura Malandrino per il CorriereQuotidiano.it “Non si può combattere economicamente contro Mosca con le sanzioni e poi chiedere alla Russia di impegnarsi direttamente nella lotta all’Isis”. Lo ha detto nell’intervista a Corrierequotidiano.it Franco Frattini spiegando il ruolo della Russia nella lotta al terrorismo internazionale, nella tragedia siriana e nei rapporti con la Libia. Inoltre, l’ex ministro degli Affari Esteri, ha sottolineato perché, ed esattamente in che termini, si può parlare di terza guerra mondiale: il punto in comune a tutti i conflitti in atto nella nostra epoca è che “hanno la distruzione dell’essere umano come obiettivo”. Rispetto al dramma dei profughi e alle responsabilità della Comunità internazionale nella loro accoglienza, infine, ha ribadito le risposte deboli e del tutto insufficienti, soprattutto dell’Europa del Nord.
D – Presidente Frattini, secondo lei, come si pone la Russia di Putin davanti al terrorismo internazionale dell’Isis?
R – Certamente la Russia ha il medesimo interesse dell’Occidente a contrastare e a battere definitivamente il califfato islamico, il Daesh (acronimo arabo di ISIS, ovvero Islamic State of Iraq and the Levant), anche per dare una risposta ai problemi molto seri al suo interno con l’estremismo islamico. Basti ricordare che dalla Cecenia sono partiti e partono spesso gruppi di terroristi che vanno a commettere attentati assai gravi non solo a Mosca, ma anche in altre città della Russia. È chiaro tuttavia che un coinvolgimento della Russia nell’azione diretta di contrasto al Daesh richiede un coinvolgimento di Mosca in un contesto assai più ampio. È impensabile, insomma, che da un lato si combatta economicamente contro Mosca con le sanzioni e dall’altro si chieda a Mosca di impegnarsi direttamente nella lotta all’Isis. Loro sono interessati comunque, ma è ovvio che per un coinvolgimento più forte, quello che in fondo è andato a chiedere anche il premier Renzi a Putin, noi in cambio dovremmo prospettare un coinvolgimento anche nelle prospettive strategiche.
D– Secondo lei c’è una connessione tra la crisi libica e la questione ucraina?
R – In Libia è noto che tra i Paesi europei l’Italia è quello che, per la sua storia e le profonde relazioni che ha sempre avuto, meglio conosce e meglio può ritenersi radicato con quel Paese. Ma dopo l’Italia c’è la Russia che ha una presenza, una penetrazione importante, diretta, in Libia. La Russia, inoltre, sta dando un aiuto fondamentale all’Egitto che gioca un ruolo essenziale nel contrastare il Daesh e nel fermare l’avanzata dei terroristi nelle varie città della Libia. Per questo motivo, quando il nostro premier ha chiesto a Putin un forte coinvolgimento della Russia per la soluzione Onu da trovare in Libia ha fatto una cosa perfettamente logica. Non dimentichiamo inoltre che la Russia è uno dei 5 Paesi che hanno il diritto di veto. Niente passa alle Nazioni Unite, come si è visto nella tragedia della Siria, se non c’è il consenso anche della Russia. Quindi non si può pensare che per contrasti con l’Europa e per la questione delle sanzioni si possa creare una sorta di isolamento e di non coinvolgimento della Russia che, invece, per le questioni strategiche globali è un alleato indispensabile.
D – Il Papa ha parlato di “Terza guerra mondiale a pezzi, a capitoli, dappertutto”. Secondo lei questi pezzi sono tutti capitoli autonomi o c’è un nesso, un collegamento tra i diversi conflitti?
R – Questa frase del Papa mi ha colpito molto perché io credo che oggi esistano davvero dei focolai di distruzione della nostra civiltà. Li vedo in Medio Oriente, ovviamente nella Siria e nella tragedia del Libano con la crisi umanitaria di milioni di rifugiati siriani che scappano; nell’Iraq con le devastazioni del Daesh che distrugge intere popolazioni, penso con particolare tristezza ai cristiani dell’Iraq e all’attacco a Ninive, che era una delle enclave cristiane, a Mosul.
Ora c’è un’azione forte per recuperare Kirkuk. Poi, se scendiamo più giù, troviamo la tragedia somala. Anche in Somalia c’è un arco del terrore tra lo Yemen, la Somalia e il Sahel, e quindi tutta la zona del deserto del Sahara che vuol dire sud della Libia e sud dell’Algeria, un’area in cui si mescolano terrorismo, traffico della droga e traffico delle armi, con l’ulteriore tragedia nella tragedia del traffico di migranti. Queste sono tutte guerre che non possono definirsi locali, perché hanno riguardato e riguardano eventi epocali. Basti pensare le migrazioni di massa o le fughe di massa dei rifugiati.
Quando scappano milioni di persone non è certo una crisi regionale. E quindi il Papa ha ragione, si tratta di una dimensione globale, con un filo conduttore che mette in connessione tutti questi conflitti: la negazione della persona umana come soggetto di diritti. Anzitutto il diritto alla vita, il diritto dei bambini a non essere sfruttati o venduti, il diritto delle donne. Il punto in comune è che tutte queste guerre, più o meno virulente, hanno la distruzione dell’essere umano come obiettivo perché considerano pari a zero il valore della vita umana. Esattamente la negazione della civiltà. È questa la realtà: siamo di fronte ad azioni, crisi , guerre che mirano a creare sistemi dittatoriali in cui la persona umana non conta niente. Il contrario di quello che il Santo Padre, e non solo, ci ricorda sempre.
D – Ci sono, secondo lei, i presupposti per internazionalizzare formalmente questi conflitti?
R – Lo chiedono in molti per ciascuno di questi conflitti. La situazione in Libia andrà spero davanti alle Nazioni Unite molto presto. La crisi e la tragedia siriana c’è andata già, ma ancora una volta proprio per l’errore compiuto nei confronti della Russia non si è sortito qualche risultato importante. Oggi le Nazioni Unite chiedono all’Europa, formalmente, di darsi carico dei rifugiati siriani nel Medio Oriente. Quindi le Nazioni Unite sono già investite da tutto questo. È chiaro che per l’internazionalizzazione di ciascuno di questi conflitti la strada c’è. La terza guerra mondiale in senso formale, invece, le Nazioni Unite non hanno alcun titolo per dichiararla, e non penso che faranno mai una cosa di questo genere. Per questo la frase del Papa è ancora più giusta, perché parla di terza guerra mondiale frazionata, in aree del mondo diverse seppur con denominatori comuni.
D – Secondo lei quale potrebbe essere la migliore azione di peacekeeping della comunità internazionale rispetto allo scenario odierno? E invece quale dovrebbe essere la risposta dell’Italia e della Comunità internazionale all’allarme di Frontex rispetto all’emergenza migrazioni?
R – Gli Stati e le organizzazioni regionali sono chiamati a farsi carico, con responsabilità, di quello che sta accadendo nello scenario internazionale. Penso allora innanzitutto all’Europa, e soprattutto all’Europa del Nord, purtroppo fortemente inadempiente per esempio rispetto alla questione dei profughi. L’Italia ha accolto 170 mila migranti in un anno. Ci sono Paesi, egualmente grandi ed importanti, che ne hanno accolti 1.700. Tutto invece chiama alla responsabilità collettiva. Nessuno si può tirare fuori. Quando essendo Commissario responsabile dell’Ue costituii Frontex, il sistema europeo sull’immigrazione, l’idea era che Frontex diventasse un corpo unitario ed integrato di guardie di frontiera europea. In realtà è rimasto un organismo intergovernativo in cui gli interessi nazionali prevalgono gli uni sugli altri. A dimostrarlo è la missione Triton, finanziata con circa un decimo di quello che solo l’Italia spendeva per Mare Nostrum. Ed invece questa è la risposta dell’intera Europa. Risposte deboli e del tutto insufficienti, insomma. Ci vorrebbe invece una trasformazione di questa strategia in una strategia realmente comunitaria. E se c’è un’agenzia a livello europeo che si occupa dell’immigrazione, questa deve anzitutto sostenere gli Stati in prima linea: Italia, Spagna, Malta, Grecia, in nome del principio di solidarietà che è uno dei pilastri dei trattati europei.